di Rassegna.it I salari reali sono fermi a trentanni fa, quando venne disdettata la scala mobile per la seconda volta dalla Confindustria: dal 1990 in poi, hanno mostrato una dinamica fortemente inferiore a quelli degli altri Paesi, sia dellarea euro che dellarea non euro. Ciò è dovuto a diverse ragioni, fra cui la flessibilizzazione del lavoro. Vari studi hanno dimostrato che nelle aziende con unalta percentuale di lavoratori precari le retribuzioni crescono meno e cè meno capacità di contrattare, soprattutto a livello decentrato. Ma il vero problema riguarda il modo con cui è regolata la contrattazione salariale, basata su fondamenti teorici microeconomici di equilibrio della singola impresa. Così Leonello Tronti, docente di Economia alluniversità di Roma Tre, intervenuto stamattina a Economisti erranti, la rubrica di RadioArticolo1. Per il singolo imprenditore il lavoro è un costo. Per cui, tutto quello che è stato fatto in questi anni per ridurre i costi - dal cuneo fiscale ai diversi tipi dincentivazione - è servito per tenere a galla le singole imprese. Ma non basta produrre a bassi costi, bisogna anche vendere. E se i lavoratori hanno salari troppo bassi, non lo possono fare. Questa è una carenza di visione economica, che si oppone allo sviluppo e frena il Paese. Non possiamo pensare che il salario reale dei lavoratori rimanga fermo per trentanni. Con il risultato che oggi, considerando i danni fatti da flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, i lavoratori sono disposti a essere pagati il meno possibile pur di essere assunti e sono obbligati a competere sulle retribuzioni. Ciò porta inevitabilmente a una caduta del potere dacquisto, ha proseguito il professore. Il governo ha individuato nei bassi salari uno degli elementi che depotenziano la domanda interna e intende stabilire un salario minimo regolato per legge. È una proposta che non ci convince, perché abbiamo un buon livello di contrattazione collettiva, che riesce a stabilire livelli minimi delle retribuzioni per tutti i lavoratori, uno dei pochi record del nostro Paese, che non vale proprio la pena di scardinare, stabilendo un minimo al di sotto del minimo già presente e previsto dai ccnl. Semmai, vanno estesi i contratti collettivi lungo le direttrici fondamentali dinclusività e rappresentanza, in base allaccordo sottoscritto unitariamente nel 2018 con Confindustria e altre associazioni datoriali. Dunque, rafforziamo quel che abbiamo. È quanto ha detto Riccardo Sanna, coordinatore area politiche per lo sviluppo Cgil nazionale, intervenuto nella stessa trasmissione. Il vero problema non sta nel contratto nazionale di lavoro - che da noi copre bene i lavoratori delle grandi aziende, ma tutela meno quelli delle piccole e medie imprese -, e non è vero che se si abbassano i salari a tutti si crea più occupazione. Aumenterebbero solo i salari di coloro che stanno sotto il minimo, senza fare i conti con contratti pirata, contratti a termine distorti, inoccupati e sottoccupati. Insomma, la grande forza lavoro potenziale - di cui lItalia vanta il record - non verrebbe intaccata ed è proprio questa che riduce la quota del lavoro, oltrechè aumenta i salari solo in ragione dellinflazione. Per accrescere la produttività, la parola-chiave sono gli investimenti e se i profitti lasciati alle imprese per via fiscale con la moderazione salariale non sono stati reinvestiti, ciò è dovuto anche da un mancato aumento dei salari reali, soprattutto dal mancato aggancio dei salari reali alla crescita pur esigua della produttività. In realtà, ciò che è mancato - come rilevavano Federico Caffè ed Ezio Tarantelli - è un governo che attui le necessarie politiche industriali, fiscali e sociali a sostegno di una politica dei redditi e un sistema di imprese che reinvesta sufficientemente sugli utili, ha continuato lesponente Cgil. Laccordo interconfederale tra Cgil, Cisl e Uil e imprese datoriali può essere una risposta nel segno di uno sviluppo della contrattazione, anche se non è un modo sufficiente per risolvere il problema della frammentazione delle relazioni industriali, delluscita dal sistema dei contratti collettivi nazionali di pezzi imprenditoriali importanti come Fiat e Ibm, dalla proliferazione quasi inarrestabile di contratti pirata, con una miriade di casi di dumping contrattuale, con contratti che fanno concorrenza sleale e abbassano il costo del lavoro. Con situazioni limite, come quelle dimprese che, daccordo con il personale, passano da un contratto allaltro solo perché costa meno e così non licenziano nessuno, indebolendo però il sindacato e affossando il sistema nel suo complesso. Per risolvere la questione, ci vuole una legge e il governo deve intervenire con una reinterpretazione dellarticolo 39 della Costituzione sulla validità erga omnes dei ccnl, allinterno di un quadro normativo che ne definisca i confini contrattuali. Dopodichè, si può affrontare il problema del salario e del reddito minimo, ha concluso Tronti.