Ci sono momenti in cui la storia non bussa. Suona il campanello e aspetta sul pianerottolo, valigia in mano. L’8 e 9 giugno è uno di quei momenti. Cinque referendum. Quattro parlano di lavoro, uno di cittadinanza. Tutti ci chiamano in causa, uno per uno.

Sul tavolo ci sono i diritti che fanno la differenza tra una vita precaria e una dignitosa: sicurezza nei luoghi di lavoro, lotta all’instabilità come destino, valore ai contratti collettivi, tutela vera contro i licenziamenti ingiusti. E poi c’è la cittadinanza: non uno slogan, ma un riconoscimento dovuto a chi contribuisce ogni giorno alla società senza ancora potersi dire, fino in fondo, parte di essa.

Ma c’è un ostacolo grosso come un macigno e sottovalutato come un refuso: il quorum. Se non vota almeno il 50% più uno degli aventi diritto, tutto evapora. Nessun risultato, nessun cambiamento. Solo il deserto dell’irrilevanza. È il lato oscuro della democrazia: funziona solo se la usi.

Ed è qui che entra in scena l’impresa più difficile e più urgente: convincere gli incerti. Non solo quelli che non sanno. Ma anche e soprattutto quelli che non sono d’accordo con noi. È facile parlare ai già convinti, coccolarsi nelle proprie certezze, fare like nella bolla. Ma il quorum non lo raggiungiamo con gli amici su Instagram. Lo costruiamo uscendo, attraversando frontiere culturali, politiche, sociali.

Serve coraggio. Di ascoltare chi voterebbe diversamente, di affrontare chi è disilluso, arrabbiato, apatico. Serve la pazienza di seminare dubbi, non verità in tasca. Il referendum ha questa strana potenza: può unire anche chi non la pensa allo stesso modo, purché sia d’accordo su una cosa sola, che scegliere è meglio che subire.

Dobbiamo tornare nei luoghi dimenticati dalla politica: nei mercati, davanti alle scuole, nei comitati di quartiere, tra le corsie del supermercato e i vagoni della metro. Parlare con chi ha spento la TV, con chi si informa solo a spizzichi, con chi dice “tanto è tutto inutile”. Perché è proprio lì, in quel terreno difficile, che si gioca la partita.

E non basteranno solo i post brillanti o i video emozionali. Stavolta serve qualcosa di più fisico: la voce, la presenza, lo sguardo. Serve mettersi in gioco sul serio. Non per far trionfare un’idea astratta, ma per salvare il gesto concreto che tiene in vita la democrazia: mettere una croce dentro una casella.

Il tempo stringe. I giorni sono pochi, ma se li riempiamo di parole vere, di incontri reali, di confronti, possono bastare. Cinque referendum non sono una formalità. Sono una chiamata alla responsabilità collettiva. Chi pensa ancora che la democrazia sia qualcosa da difendere, non resti a guardare.