“Per fare questo mestiere ho chiesto il permesso a mio padre”. Athos Mion non ha neanche trent’anni e un grande sogno: fare il regista teatrale. Dopo un lungo periodo di studi a Milano, da qualche tempo ha cominciato a lavorare. Ma sin dalle prime esperienze si è scontrato con una realtà più cruda del teatro stesso: lunghi periodi di non lavoro, retribuzioni non sempre adeguate alla mole di impegno, scarsa chiarezza delle condizioni contrattuali.

E se Athos sottolinea di aver chiesto il permesso a casa, è perché – come lui stesso racconta – per svolgere una professione artistica in Italia esistono solo due strade: avere le spalle coperte, oppure mettere insieme più di un’occupazione. Un solo reddito, per di più insicuro, non basta. “Lavoro un mese e magari vengo retribuito due giorni” racconta Athos, riferendosi al fatto che molto spesso la fase progettuale e preparatoria di un lavoro teatrale non viene considerata ai fini del pagamento.

“Andrò a votare cinque sì ai referendum per una questione di dignità lavorativa” dice il giovane regista. La precarietà, nel mondo dello spettacolo dal vivo, è una ferita aperta e sanguinante. A questo, si accompagnano alti tassi di insicurezza sul lavoro, dovuti proprio alla volatilità degli accordi contrattuali, al dilagare del lavoro sommerso, alla tendenza a risparmiare sul costo del lavoro e delle tutele assicurative.

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Eppure si fa fatica a rifiutare certe condizioni, perché la discontinuità spinge a dire sempre di sì: “Ho cominciato a rifiutare certi lavori sotto una soglia accettabile. Per quattro mesi magari non ho un lavoro e questo genera ansia e stress. Ma mi sforzo di dire a me stesso, anche in quei momenti: io faccio questo lavoro”. Autodefinirsi è fondamentale per prendere coscienza. Il primo passo per chiedere il rispetto dei propri diritti. Anche per questo è importante andare a votare.

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