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“La prima cosa da sottolineare è la diversità che c'è tra un referendum e una forma di elezione politica ‘normale’, dove chi va a votare delega qualcun altro a rappresentarlo”, mentre col referendum “non delega proprio nessuno: è lui che decide” e questo vuol dire che “se noi raggiungiamo il quorum e vincono i sì, il giorno dopo milioni di persone avranno dei diritti che oggi non hanno”. Così il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, nel suo intervento a Futura 2025 che ha lanciato la campagna referendaria per i 5 referendum della Cgil su diritti del lavoro e di cittadinanza rispetto ai quali gli elettori sono chiamati a votare l’8 e 9 giugno.
Il valore della partecipazione
Si tratta di una sottolineatura importante: il referendum, infatti, è una delle tre forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica previste dalla nostra Costituzione che prevede, per il Paese, un sistema di democrazia rappresentativa, cioè indiretta. Ed è anche di gran lunga la più importante, non solo perché largamente più utilizzata, ma anche perché, se così si può dire, la “più diretta”: le altre due, infatti, la petizione e il disegno di legge di iniziativa popolare, necessitano comunque, per dispiegare i loro effetti, di un passaggio e di una approvazione in Parlamento.
È per questo, dunque, che i referendum che hanno segnato la storia del Paese sono quelli legati a grandi questioni, temi di forte impatto sulla vita delle cittadine e dei cittadini. Una categoria a cui a pieno titolo rientrano i quesiti proposti ora dalla Cgil: precarietà, sicurezza, diritti di cittadinanza sono temi decisivi per un Paese che voglia dirsi civile.
La Repubblica nasce con un referendum
Dal 1946 ad oggi in Italia si sono svolti 78 referendum nazionali, di cui 72 referendum abrogativi, un referendum istituzionale, un referendum di indirizzo e 4 referendum costituzionali. L’Italia di oggi, dopo la fine della seconda guerra mondiale e in fortissimo legame con la Resistenza e la Liberazione, è nata proprio da un referendum: quello istituzionale con cui, il 2 giugno del 1946, i cittadini e le cittadine scelsero la forma repubblicana (12.717.923 voti) rispetto a quella monarchica (10.719.284) e insieme al quale venne eletta anche l’assemblea costituente.
Un momento capitale, visto che in questa occasione furono chiamate al voto per la prima volta in una consultazione nazionali anche le donne. La partecipazione fu elevatissima: votarono circa 13 milioni di donne e 12 milioni di uomini, l'89,08% degli aventi diritto al voto.
I referendum abrogativi: si comincia col divorzio
Il primo referendum abrogativo in Italia si tenne nel 1974. Un inizio di grandissimo rilievo per la storia del paese: fu infatti indetto per abrogare la norma che nel 1970 aveva introdotto il divorzio, la legge Fortuna-Baslini. Una legge frutto del mutato clima nel Paese, con il ‘68 e le lotte femministe. Parteciparono al voto l'87,7% degli aventi diritto, votarono no il 59,3%, mentre i sì furono il 40,7%: la legge sul divorzio rimase dunque in vigore.
Altra tappa fondamentale, frutto dello stesso clima “progressivo”, quella che riguardò l’interruzione di gravidanza e la legge 194 del 1978: in precedenza una donna che praticava volontariamente l’aborto rischiava fino a quattro anni di carcere e chi lo causava cinque. Tra il 17 e 18 maggio del 1981 milioni di persone furono chiamate a pronunciarsi su due quesiti relativi all’Igv: il primo, promosso dal Partito Radicale, chiedeva la totale liberalizzazione dell’aborto, eliminando il divieto per le minorenni o dopo i primi 90 giorni di gestazione.
Il secondo, proposto dal Movimento per la Vita, puntava alla modifica, di fatto al sabotaggio, della legge 194: l’Igv sarebbe stata possibile solo per motivi terapeutici (la Corte Costituzionale respinse quello che chiedeva l’abolizione totale della legge). La proposta radicale fu bocciata, mentre nell’altro quesito il no si impose con il 68%. La legge 194 - nonostante gli attacchi e i tentativi di sabotarla che continuano tuttora - rimase dunque in vigore. Un altro momento spartiacque per il nostro Paese.
La scala mobile
Il referendum sulla scala mobile fu fortemente voluto dal Pci: il 9 e 10 giugno cittadine e cittadini vennero chiamati a pronunciarsi sul decreto di San Valentino del 14 febbraio 1984 con il quale il governo Craxi aveva disposto il taglio di 3 punti della scala mobile, rallentando il processo di adeguamento dei salari all’inflazione. Alla consultazione prevalse il no con il 54,32% dei voti.
L’acqua bene comune: il referendum tradito
Altra data centrale per la storia dei referendum in Italia fu il 2011, con i due referendum sull’acqua bene comune e quello sul divieto della produzione di energia nucleare. In tutti e tre i casi a vincere fu il sì, con una maggioranza schiacciante: circa il 95%. Per quanto riguarda l’acqua la volontà popolare sancì che essa dovesse restare un bene di natura esclusivamente pubblica e che da essa non si potesse trarre profitto. Un grande risultato che però è stato in parte tradito, tanto da spingere il Forum dei movimenti per l’acqua pubblica ad annunciare lo scorso aprile un ricorso alla Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Il Forum ha denunciato come, tra ricorsi, decreti e vuoti legislativi, di fatto le privatizzazioni non si sono fermate e le tariffe sono aumentate del 18%. Si è trattato comunque di un momento di grande dibattito pubblico sul tema dei beni comuni.
I referendum del 2017: stop ai voucher
Nel luglio del 2016 la Cgil ha depositato 3,3 milioni di firme per proporre tre referendum abrogativi che, semplificando, puntavano al ripristino dell’articolo 18 prima del suo superamento col Jobs Act, la cancellazione dei voucher e il ripristino della responsabilità in solido delle aziende appaltatrici in caso di violazioni nei confronti dei lavoratori.
I tre quesiti referendari erano accompagnati da una proposta di legge d’iniziativa popolare per l’introduzione della Carta dei diritti universali del lavoro. La Consulta bocciò il quesito sull’articolo 18 e ammise gli altri due, tuttavia non si andò a votare perché il governo intervenne tramite decreto nel senso indicato dai referendum. Ma, poiché il peggio può sempre tornare, il governo Meloni con la sua prima di legge di bilancio - e il successivo decreto lavoro - li ha reintrodotti nel 2022, ampliandone tra l’altro il limite di utilizzo a 15 mila euro l’anno.
Referendum costituzionali: la sconfitta di Renzi
Non si può fare a meno di ricordare anche almeno due referendum costituzionali, strumento regolato dall’articolo 138 della Costituzione.
Il primo si tenne il 7 ottobre del 2001 e aveva a oggetto l’approvazione della legge di riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione della Repubblica Italiana. Tra i capitoli più significativi, la ridefinizione delle materie rientranti nella potestà legislativa esclusiva e concorrente dello Stato e delle Regioni. Vinsero i sì col 64,2% dei voti, con un'affluenza bassa – al 34,1% dei votanti –, ma per questo tipo di consultazione non è previsto un quorum. Una legge che negli anni ha fatto molto discutere: d’altra parte ha in qualche modo aperto la strada all’autonomia differenziata, a quel ddl Calderoli, per ora fermo, che punta a scardinare l’unità della Repubblica.
Con il il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 gli italiani bocciarono sonoramente la riforma costituzionale Renzi-Boschi (approvata il 12 aprile) che aveva come obiettivo quello di modificare sotto vari profili la seconda parte della Costituzione, rafforzando il potere dell’esecutivo a discapito delle prerogative del Parlamento, come sottolineato da tanti giuristi, tra cui Gustavo Zagrebelsky. Andarono alle urne il 65% degli aventi diritto o il no prevalse con il 59% dei voti.