Stiamo attraversando un periodo di angoscia collettiva, il peggiore nella storia dell’ultimo secolo per la sua estensione e pervasività. Il mondo ha smarrito le certezze principali del vivere comune, quella del giorno dopo e quella del conforto. È stato attaccato il nucleo della speranza e della solidarietà tra le persone, motori propulsori per ogni avanzamento comunitario. I valori fondanti dell’umanità sono stati stravolti: osserviamo da lontano gli anziani, rinchiusi dietro le finestre o abbandonati nelle strutture divenute prigioni; uomini e donne a spirare da soli, aggrappati ai letti nelle proprie case o nel letto di ospedali in subbuglio, nelle barelle di tendoni da guerra; bambine e bambini che hanno incontrato la luce senza il loro padre, donne sole, confortate solo dagli occhi amorevoli di ostetriche, ginecologi, operator sanitari, in preda alla paura del parto e isolate dai contatti coi i familiari.

Se solo un attimo chiudessimo gli occhi potremmo sentire i pensieri di questa umanità tradita. Chi si prende cura di chi cura? Questa diventa la necessità per la tenuta dei popoli. La salvaguardia del benessere bio-psico-sociale delle lavoratrici e lavoratori della sanità è indispensabile.

In Italia, dove esiste un sistema sanitario pubblico e universale questo dilemma è cogente e la norma prevede che le aziende sanitarie si facciano carico dei rischi psicosociali dei dipendenti. Bisogna mettere a punto un programma di prevenzione dell’esaurimento fisico e mentale degli operatori sanitari con un rafforzamento dei servizi di prevenzione e protezione e di psicologia, altrimenti non sarà possibile affrontare il tempo che ci separa dalla risoluzione di questa emergenza, ed anche delle prossime, che inevitabilmente si presenteranno.

Numerosi sono gli studi che registrano come l’equilibrio psicologico di chi lavora in sanità sia messo a dura prova: depressione, ansia, aumento di comportamenti disadattivi, distaccamento emotivo, problematiche relazionali e sociali, queste alcune delle conseguenze già riportate dalle valutazioni svolte.

I posti letto scarseggiano così come il personale e gli strumenti di intervento. Tutto è in continuo movimento. Una frenesia che non dà tempo di fermarsi a pensare, se non quando si esce dall’ospedale per tornare a casa. E molti operatori lamentano di sentirsi affaticati, affranti dal senso di impotenza e dall’ineluttabilità del destino. Non c’è cura, non c’è spiegazione. La dimensione della casualità, per cui alcune persone muoiono ed altre no, scombina ogni capacità di previsione e di gestione, quando eravamo abituati dalle tecnologie e dalla medicina a curare tutto. Programmi e procedure che saltano, colleghi che si ammalano, luoghi che si riorganizzano, setting di cura che spariscono e vengono riconvertiti. Operatori che sono sottoposti ad uno stress inaudito, a partire dai sanitari impegnati nelle prime linee, fino a chi si occupa di manutenere il sistema dalle retrovie: gli amministrativi, i tecnici, ovvero tutti coloro impegnati negli acquisti di beni, servizi e personale, nella comunicazione, nella messa a punto dei protocolli, nella prevenzione dei rischi e della sicurezza, nella progettazione, nella realizzazione delle infrastrutture, nel sociale e in tutto il resto che garantisce la salute pubblica. Molto del personale e stato ricollocato in smart working senza una regolamentazione precisa, cosicché i carichi e i tempi di lavoro spesso sono aumentati.

Chi ha curato adesso rischia di ammalarsi sul serio e, se non si mettono in atto interventi di prevenzione e di gestione dello stress lavoro correlato, si rischiano ripercussioni molto gravi negli anni a venire. L’ambivalenza tra emozioni forti e contrastanti, la modifica dei carichi ed anche della tipologia di lavoro, la disperazione delle persone e spesso la separazione dalle proprie famiglie, così come lo stigma sociale, espongono gli operatori a elevati livelli di rischio sia biologico, che psicologico e sociale. Anche la perdita dei confini tra vita personale e lavorativa impatta in modo violento, tanto che spesso gli operatori si sono dovuti far carico del trauma psichico dei pazienti e dei familiari facendo spesso da intermediari attraverso l’uso di tecnologie con cui erano abituati a parlare con i propri cari o a divertirsi nelle chat. Mettendosi in gioco interamente, sia da un punto di vista emotivo che fisico. Ma a fronte di un tale coinvolgimento assoluto, mancano gli spazi di riposo e di relax, necessari a recuperare le energie fisiche e psichiche.

Molti operatori raccontano che quando parte il turno è come entrare in guerra. L’accesso alle strutture sanitarie é quello di un Paese occupato, si passa il check point e si prosegue. Poi inizia la vestizione, che deve essere attenta e scrupolosa. Indossare le protezioni tutto il giorno significa nascondere il sorriso, non poter più bere in libertà, mangiare uno snack, cogliere dall’espressione di un collega cosa è accaduto la sera prima.

Mancano spazi dove si può allentare la tensione. Il sapore di un caffè e di una battuta appoggiati su una sedia, diventa un pericolo di contagio. L’ironia, che nei momenti di tensione è un meccanismo di difesa fondamentale, è paralizzata dietro alla paura. Si intravedono i colleghi dagli occhi che sembrano afferrare i pensieri. Ancora una giornata trascorre e si rientra a casa per chi non deve vivere in strutture protette. Spesso si torna con l’umore basso laddove anche tutti i componenti della famiglia vivono disagi enormi, dovuti dalle misure di restrizione. Ecco che la conflittualità e la violenza familiari sono in aumento durante la pandemia. Sembra che lo stress accumulato non riesca a trovare un luogo di decantazione e lo stato di allerta continuo provochi disagi profondi.

Anche per questo il sindacato c’è. La Funzione pubblica ha creato un servizio di ascolto digitale per tutti gli operatori sanitari, oggi esteso anche ai delegati, che si chiama funzione protettiva, partito fin dal primo lockdown e realizzato grazie alla disponibilità di più di cinquanta psicologi e psichiatri, in rete con i servizi del servizio sanitario.

La possibilità di una consulenza, ma anche solo di un confronto con un professionista può essere molto importante, laddove c’è bisogno di fermarsi a riflettere per far spazio alle emozioni, in un periodo così drammatico. Il servizio si estenderà anche ai delegati, che devono a loro volta proteggere i lavoratori e che in questo periodo, di profondo cambiamento, sono stati spesso travolti: problemi diversificati, richieste pressanti, rischi continui per la sicurezza fisica e psichica, sofferenze e fatiche condivise, a qualsiasi ora, senza ‘disconnessione’. La funzione che protegge il lavoro si occupa del benessere psicologico e sociale, sostenendo la capacità di resilienza dei lavoratori e dell’organizzazione sanitaria nel fronteggiare la situazione, per contenere e rielaborare i vissuti traumatici. Funzione protettiva è curarsi di chi cura.

Nella storia, ogni qual volta si è presentata una catastrofe, si è superata grazie all’unione tra le persone, ad una visione comune e alla fiducia in un periodo migliore. L’unione tra le persone deve aumentare anche nei periodi di maggior distanziamento e la rappresentanza sindacale è indispensabile nell’unire le lotte dei lavoratori per la salute e la sicurezza. Così come è importante favorire una presa in carico multiprofessionale, che rispetti le dimensioni olistiche della persona e costituisca un fattore mitigante dello stress lavoro correlato, in grande parte riconducibile all’assenza di condivisione e di confronto.

Ecco che per offrire un’effettiva possibilità di cambiamento occorre avere una visione collettiva che metta al centro la valorizzazione del lavoro, partendo dal protagonismo degli operatori e dai cittadini e dal rispetto delle condizioni lavorative. Un cambio di paradigma che promuova la salute dei professionisti della sanità per garantire il loro benessere e fornire cure più efficaci a tutta la popolazione in un vero e proprio New Deal della salute che la Cgil si impegna a costruire.

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Patrizia Fistesmaire è psicologa del servizio sanitario nazionale