L’Europa che si commuove davanti alle rovine di Kiev è la stessa che sbadiglia davanti alle macerie di Gaza. Non è incoerenza, è marketing. Il profugo ucraino vende bene, il palestinese no. Il primo è testimonial della libertà, il secondo una mina che rischia di esplodere sotto le poltrone dei nostri alleati. Il dolore, qui, non ha misura umana ma commerciale.

Così le frontiere funzionano come un concorso a premi. Vincenti i cristiani telegenici, respinti i musulmani scomodi. Accolti i disperati con look da Erasmus interrotto, ignorati quelli che ricordano l’odore del campo profughi. Non è razzismo dichiarato, è una forma più raffinata, dove la compassione si concede solo a chi non incrina la cartolina del continente.

E mentre si infliggono sanzioni feroci a Mosca per riaffermare il sacro diritto internazionale, Israele continua a radere al suolo città intere senza pagare dazio. Due pesi e due misure, due morali parallele che non si incontrano mai. La coerenza geopolitica è un lusso che l’Occidente non si concede, se rischia di disturbare i propri interessi.

A tenere il ritmo ci pensano poi i media, instancabili registi della tragedia selettiva. Lacrime in diretta per chi scappa dai cattivi ufficiali, silenzio tombale per chi fugge dagli amici di Bruxelles. La cronaca non racconta, assembla sceneggiature: c’è chi diventa simbolo e chi resta rumore di fondo, invisibile persino nelle statistiche.

E poi c’è il nostro governo che riveste di parole solenni la propria vigliaccheria: sicurezza, identità, emergenza. Ma sotto i drappi resta il meccanismo banale del tornaconto. Chi ama definirsi faro di civiltà spesso seleziona i naufraghi come un direttore di casting. E in questa scelta non tradisce solo i migranti, svela sé stessa come una civiltà marcia, più pronta a respingere vite che a guardarsi allo specchio senza provare un minimo di vergogna.