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Otto mesi. Tanto è il tempo che Alberto Trentini marcisce in una prigione venezuelana. Otto mesi in cui il governo italiano ha preferito il silenzio alla responsabilità. “Tace anche la nostra presidente del Consiglio”, denuncia sua madre Armanda davanti al tribunale di Roma, dove si celebra il processo per l’omicidio di Giulio Regeni.
Intanto la Svizzera si è mossa, ha liberato il compagno di cella di Alberto, che ha raccontato condizioni inumane. L’Italia invece resta a guardare. Immobile. Complice. Quando la vergogna buca la bolla, arriva una telefonata da Palazzo Chigi. Tardiva, analgesica, autoprotettiva. Più un atto cosmetico che un’azione politica.
“Non possiamo più aspettare”, grida la madre. E ha ragione. Ma qui non si muove nulla. Nessuna missione, nessuna pressione diplomatica. Solo la liturgia delle frasi fatte. Nel frattempo Alberto è dimenticato e con lui la dignità di uno Stato che sceglie chi salvare.
Il governo Meloni si vanta di difendere gli italiani. Ma vale solo per quelli utili alla propaganda. Se sei un cooperante che aiuta le persone con disabilità, diventi un problema. Non fai notizia, non porti voti. Nessuna ruspa diplomatica si mette in moto per te. Il patriottismo a orologeria funziona solo per chi serve a qualcosa. Gli altri possono ammuffire.
“Le nostre istituzioni dimostrino di avere a cuore la vita di un connazionale”, insiste Armanda. Ma qui il cuore batte solo per i riflettori. Alberto non è un caso è un test: serve a misurare quanto può scendere in basso uno Stato prima di smettere di fingere umanità. E il fondo, a quanto pare, è già stato scavato.