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Il supermercato Pam ha scoperto un nuovo sport: trasformare un cassiere in bersaglio mobile. Fabio, sessantadue anni e un mestiere costruito su scontrini e pazienza, diventa il protagonista involontario di un teatro crudele. Gli mandano un ispettore travestito da acquirente, gli infilano merce in una cassa di birra e aspettano l’errore come predatori in saldo permanente.
La scena è grottesca. L’uomo che finge di fare la spesa rivela la sua missione con la solennità di un cattivo da fiera di quartiere. E regala a Fabio una frase che meriterebbe l’Oscar della manipolazione: se voleva gli rubava pure l’anima. Evidentemente in azienda si confonde la prevenzione con la provocazione e la formazione con il tormento.
Poi arriva la liturgia disciplinare. Contestazione, silenzi, la porta che si chiude come se fosse un fallimento epocale. Il cassiere spiega che aprire confezioni ai clienti è un azzardo. Che non è un doganiere. Che un controllo così costruito somiglia più a un agguato che a una valutazione. Ma Pam ha già scelto la via più comoda: scaricare su un lavoratore l’ansia di un sistema ossessionato dal sospetto.
Nel frattempo il clima interno si irrigidisce come una cella frigorifera. Lettere per dettagli minimi, sanzioni a raffica, premi passati gettati nel cestino. L’esperienza diventa colpa. La professionalità un intralcio. E tutto prende la forma di un messaggio rivolto agli altri: se becco te, tremano loro. È pedagogia aziendale o un talento particolare per l’autolesionismo.
La storia di Fabio apre un varco. Perché non è solo un licenziamento. È la prova che il lavoro rischia di trasformarsi in un esercizio di paura permanente. E il test del finto cliente non misura la qualità ma la resa. L’anima, alla fine, è salva. Quella di Fabio. L’altra, quella dell’azienda, vaga ancora tra scaffali e controlli inventati.






















