Sembrava che finalmente si facessero passi avanti, e in effetti dalla Camera arrivano buone notizie, ma le dichiarazioni di Roccella e Nordio attestano quanto ancora occorra lavorare per costruire una cultura che superi il patriarcato. Ne parliamo con Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil.

Il 25 novembre di quest’anno si celebra con una buona notizia: la Camera ha approvato all’unanimità la modifica del Codice penale, che afferma che un atto sessuale è stupro ogni qual volta non c’è il consenso esplicito. Manca la ratifica del Senato, ma confidiamo non ci siano ostali.

Si tratta sicuramente di una buona notizia, ma non possiamo trascurare che l’Italia, per troppo tempo, è rimasta indietro rispetto a standard che molti Paesi europei adottano da anni. Riconoscere che ciò che distingue un rapporto sessuale da uno stupro è l’assenza di consenso esplicito, non soltanto la violenza fisica o la resistenza; tanto meno la condotta della vittima prima, durante o dopo il fatto. Questo passaggio legislativo sposta finalmente il baricentro dal comportamento della donna, su cui per decenni si è concentrata la narrazione pubblica e giudiziaria, alla responsabilità di chi agisce la violenza. È un cambiamento che libera le vittime da un doppio onere: dimostrare non solo di aver subito, ma anche di essersi “difese abbastanza”. Sappiamo bene quanto questa impostazione abbia pesato nelle aule dei tribunali, nei media, nella cultura diffusa. Il voto unanime della Camera non sana decenni di ritardi, ma rappresenta un’importante presa di posizione trasversale. La legge, inoltre, ha un valore educativo: introduce nelle norme il concetto di consenso come responsabilità. È un tassello di quella rivoluzione culturale che da anni le donne chiedono e che questo Paese non può più rimandare.

Ma ci sono anche cattive notizie. Le dichiarazioni dei ministri Roccella e Nordio in un incontro internazionale lasciano sconcertati.

Non si tratta di opinioni estemporanee: sono parole pronunciate da chi ha il potere e il dovere di orientare politiche pubbliche. Ed è qui che si apre il problema vero: non siamo davanti a provocazioni da bar, ma davanti a un arretramento culturale istituzionale. Dire che non esistano prove dell’efficacia dei percorsi educativi significa ignorare ciò che la ricerca internazionale ha dimostrato con costanza. Sappiamo da almeno quarant’anni che la violenza maschile contro le donne non nasce da impulsi irreprimibili né da generiche “difficoltà relazionali”: nasce da asimmetrie di potere interiorizzate, da ruoli di genere rigidi, dal mito del possesso e del controllo. Tutti elementi che i percorsi educativi, se ben fatti, smontano pezzo per pezzo. L’idea che gli uomini “per Dna” non accettino la parità è un’argomentazione che non sta né in piedi né in nessuna pubblicazione scientifica seria. Essere uomini non è una condanna biologica alla sopraffazione, così come essere donne non è una condanna genetica alla sottomissione. Sono le culture, le educazioni familiari, i modelli sociali, il linguaggio, le aspettative di genere, le strutture di potere a produrre comportamenti violenti o rispettosi. Parlare di Dna significa abdicare alla responsabilità politica, perché se fosse tutto scritto nei geni non servirebbero leggi, educazione, prevenzione, centri antiviolenza. È un modo elegante per dire: “Non è colpa nostra, non possiamo farci niente”. Ed è semplicemente falso. Queste dichiarazioni sono quindi pericolose perché spostano la responsabilità dalle politiche alla natura. Perché deresponsabilizzano chi dovrebbe costruire soluzioni. Perché delegittimano la prevenzione, soprattutto perché vengono da due ministri della Repubblica.

E poi il disegno di legge Valditara per l’inserimento dell’educazione sessuale affettiva nell’ordinamento scolastico proprio non va bene...

La proposta di Valditara non è pensata per educare, ma per normare i comportamenti dei giovani secondo un modello culturale profondamente conservatore. La scuola dovrebbe essere uno spazio di emancipazione, dove si impara a riconoscere le emozioni e ad assumere responsabilità nelle relazioni. Invece il ddl Valditara evita accuratamente di educare a tutto ciò che può realmente prevenire la violenza: il rispetto, la libertà, la parità, il contrasto agli stereotipi, il tema del potere nelle relazioni. La scuola non può diventare un campo di battaglia ideologico: inserire l’educazione sessuo-affettiva nel curricolum sarebbe prezioso, ma andrebbe fatto con risorse aggiuntive e con un progetto pedagogico serio. Qui manca tutto questo, è evidente il tentativo di riportare l’educazione all’ordine del primato della famiglia tradizionale. E questo, dal punto di vista della prevenzione della violenza, è non solo inutile, ma dannoso.

E per di più la Commissione Pari opportunità della presidenza del Consiglio sta studiando materiali e strumenti per gli insegnanti per l’educazione alla fertilità.

Invece di parlare alle ragazze e ai ragazzi del loro diritto a vivere una sessualità consapevole e sicura, si punta a informarli sulla fertilità come se la priorità fosse “preparare” le adolescenti alla maternità. È una scelta che richiama un preciso modello di società nel quale il ruolo della donna è centrato soprattutto sulla funzione riproduttiva. In Italia le donne guadagnano meno degli uomini: svolgono lavori maggiormente precari, si fanno carico del 70% del lavoro di cura, incontrano ostacoli enormi nelle carriere e spesso non hanno le condizioni economiche per scegliere liberamente se e quando diventare madri. L’educazione alla fertilità, in questo caso, è usata come leva ideologica, mentre avrebbe molto più senso affrontare temi come la salute sessuale, la contraccezione, il benessere psicologico e i diritti riproduttivi.

Il punto è che questo governo non si smentisce: anche il contrasto alla violenza di genere è pensato solo in termini securitari mentre andrebbe affrontato anche, forse soprattutto, in termini culturali?

La violenza di genere si consuma nelle case, dentro le relazioni affettive e nei contesti di intimità ed è la conseguenza di evidenti squilibri di potere: solo il 10–15% delle violenze ha natura predatoria, il resto avviene per mano di partner o ex partner. E allora è evidente che non puoi rispondere solo con più pattuglie, più telecamere o più misure cautelari. Questi strumenti servono ma, purtroppo, arrivano dopo. La prevenzione deve avere la priorità, serve un’educazione specifica e si deve promuovere l’autonomia economica delle donne. Se trattiamo la violenza come un fenomeno di sicurezza pubblica, la stiamo guardando con gli occhiali sbagliati. Un governo che dichiara finito il patriarcato dimostra di non voler vedere un enorme problema culturale e in questo modo finisce per minimizzare tutto il resto: gli stereotipi, le discriminazioni, il sessismo, la paura delle donne di essere credute, la difficoltà a denunciare, la povertà come fattore di rischio. La Cgil insiste da anni: la violenza si combatte soprattutto costruendo uguaglianza di opportunità non militarizzando le strade.

È in discussione la manovra di bilancio: i fondi stanziati per la prevenzione della violenza di genere, i centri antiviolenza e il reddito di sostegno alle donne vittime di violenza sono soddisfacenti?

I fondi stanziati non sono ancora sufficienti, molti centri antiviolenza vivono nell’incertezza e le operatrici spesso lavorano con contratti precari, con stipendi bassi e/o con ritardi nei pagamenti. Le case rifugio dovrebbero contare su finanziamenti stabili; il reddito di libertà, strumento prezioso, è ancora sottofinanziato e viene esaurito in pochi mesi. Non si investe abbastanza sull’autonomia abitativa, che è la vera condizione per permettere alle donne di uscire da relazioni violente. Una manovra economica dice sempre quali sono le priorità di un governo: in questa manovra la priorità non è la libertà delle donne, a partire da quella economica che si conquista con gli investimenti nel lavoro stabile. Anche per questo sciopereremo il 12 dicembre.

Quali le richieste della Cgil?

Le richieste della Cgil nascono dall’esperienza concreta nei luoghi di lavoro e dal confronto con i centri antiviolenza. È necessario un finanziamento strutturale dei Cav e delle case rifugio, con personale formato e stabile. Il Reddito di libertà va reso permanente e accessibile a tutte. È fondamentale l‘educazione sessuale e affettiva nella scuola e prevedere percorsi formativi in tutti i luoghi di lavoro su molestie, discriminazioni, linguaggi d’odio e stereotipi. Servono politiche per l’autonomia economica incentrate su salari, servizi pubblici, congedi paritari, welfare territoriale. La violenza di genere si combatte se si mettono le donne in condizione di scegliere.

Veniamo in casa nostra, attraverso la contrattazione la Cgil affronta il la questione delle molestie nei luoghi di lavoro. Possiamo fare un bilancio?

Attraverso la contrattazione abbiamo introdotto strumenti innovativi: procedure interne, codici di comportamento, formazione, sportelli di ascolto, figure di riferimento. In alcuni contesti la contrattazione ha cambiato la cultura del lavoro: le molestie non sono più percepite come un problema privato, ma come un tema organizzativo, che riguarda salute e sicurezza, clima aziendale, produttività, benessere. Abbiamo ottenuto risultati importanti in tanti settori ma non basta: il rischio che non possiamo correre è che le tutele dipendano dalla sensibilità del singolo. Il passo successivo è anche rendere questi strumenti universali, costruire reti territoriali solide e portare la cultura della prevenzione anche nelle piccole imprese, dove le donne sono più sole. La Cgil continuerà a negoziare, formare, vigilare. Perché un luogo di lavoro sicuro, rispettoso e libero dalle molestie è un luogo in cui le persone stanno meglio e quindi lavorano meglio e vivono meglio.