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“Non c’è nulla di più atroce che essere costretti a spiegare il proprio dolore a chi ha già deciso di non ascoltare”, annotava Christa Wolf. La sua riflessione, nata in un contesto storico e politico diverso, è oggi una lente potentissima attraverso cui leggere l’esperienza di molte donne italiane che trovano il coraggio di denunciare la violenza domestica.
La denuncia, nell’immaginario pubblico, è rappresentata come un gesto lineare: si denuncia, si viene protette, si accede alla giustizia. Nella realtà – quella concreta, che attraversa le aule dei tribunali, gli uffici del sociale, i corridoi dei consultori – il percorso è tutt’altro. È una soglia che spesso apre un secondo ciclo di dolore, un post-trauma istituzionale che sociologhe e criminologhe definiscono da tempo come vittimizzazione secondaria e terziaria.
Per molte donne italiane, il percorso non si limita a subire la violenza: occorre sopravvivere anche alla sua messa in dubbio. In questo contesto, i tribunali si fanno luoghi di esposizione, in cui il dolore viene interrogato: in Italia, gli atti giudiziari offrono una documentazione chiara della torsione narrativa che molte vittime subiscono. In procedimenti noti – dal caso di Torino su cui intervenne la Corte d’Appello per riportare l’attenzione sul rischio concreto per la madre, alle ordinanze del Tribunale dei Minorenni di Firenze e Venezia criticate da accademici e centri antiviolenza – si osserva una dinamica costante: la donna che denuncia è sottoposta a un vaglio non solo giuridico, ma antropologico, psicologico ed etico.
Le domande che vengono rivolte sono spesso rivelatrici di una cultura ancora intrisa di sospetto: “Perché ha aspettato a denunciare?”, “Perché non è andata via subito?”, “Perché ha consentito la convivenza nonostante la violenza?”, “Perché non ha protetto i figli?”.
È un interrogatorio che raramente viene rivolto all’aggressore. Il risultato è la costruzione di un’identità giudiziaria della donna che la trascina in uno spazio ibrido: non più vittima, non ancora imputata, ma comunque fragile, indagata nella credibilità e nella coerenza, in una sorta di chiamata di correo della violenza subita.
La letteratura scientifica internazionale parla di institutional disbelief: la difficoltà delle istituzioni di accettare che la violenza domestica non ha la forma che il senso comune desidera – non esplode sempre, non lascia segni visibili, non è sempre lineare, non è immediatamente denunciabile. E soprattutto non colpisce solo la “vittima perfetta” ma anche donne socialmente emancipate e culturalmente strutturate.
Il fraintendimento più grave è considerare la violenza come singolo evento o serie di eventi, anziché come “sistema”: l’errore più significativo riscontrabile nei procedimenti italiani – pur con molte eccezioni – è la lettura episodica della violenza. Eppure, come hanno scritto Evan Stark, Liz Kelly e Marianne Hester, la violenza domestica è un regime di controllo, un ecosistema totale, fatto di dispositivi sottili: isolamento, svalutazione, minacce velate, dipendenza economica, invasione digitale, sottrazione del sonno, manipolazione dell’immagine materna.
Questo sistema – definito coercive control – è ancora poco compreso in Italia, nonostante nel Regno Unito e in Scozia sia già da tempo parte integrante del diritto penale.
Quando la violenza di genere- e quindi la prevaricazione dell’uno sull’altra- è derubricata a conflitto tra partner, interpretata come “lite” o “fallimento relazionale”, l’autore può facilmente presentarsi come soggetto razionale. La donna, invece, appare come quella che “esagera”, “teme troppo”, “interpreta male”.
Alcuni esempi concreti di sentenze di tribunali della nostra Repubblica ci mostrano plasticamente questa situazione patologica:
- Milano, 2022: in un procedimento civile, l’aggressività dell’uomo è stata letta come “sofferenza per la separazione”, mentre l’ansia della donna è stata interpretata come “atteggiamento ostativo”.
- Trieste, 2021: la denuncia di minacce reiterate è stata qualificata come “reciproco conflitto” nonostante esistessero referti e segnalazioni pregresse.
- Roma, 2023: la madre che aveva denunciato maltrattamenti è stata definita “ipervigilante”, con rischio di penalizzazione nelle decisioni relative all’affido.
Per arrivare ai drammatici e più recenti casi di femminicidio in cui denunce e referti medici sono stati sottovalutati o, peggio, ignorati dalle istituzioni preposte.
Questi non sono casi isolati, ma indicatori di un problema sistemico. E a queste disfunzioni sistemica si aggiunge il paradosso della narrazione che assurge chi agisce violenza a vittima.
È qui che prende forma una delle derive più pericolose: il ribaltamento dei ruoli. Tanto che l’uomo violento, nel linguaggio processuale, può diventare un padre ostacolato, un partner esasperato, un uomo fragilizzato dalla separazione, un soggetto emotivamente provato, anzi “in preda a tempesta emotiva”. La donna, invece, diventa colei che “non coopera”, “drammatizza”, “non favorisce il rapporto padre-figli”.
Questo fenomeno nostrano è stato registrato anche dal Grevio del Consiglio d’Europa nel suo ultimo rapporto sull’Italia, dove si denuncia una persistente tendenza a interpretare la violenza domestica come un ostacolo alla bigenitorialità anziché come un fattore di rischio.
Il caso italiano più emblematico degli ultimi anni riguarda proprio decisioni giudiziarie in cui, pur in presenza di condotte violente accertate, si è parlato di “coparenting difficoltoso”, un concetto giuridicamente inoffensivo, ma sociologicamente pericoloso, perché normalizza la violenza come una possibile ed eventuale variabile della relazione. Di qui l’uso improprio della categoria di alienazione parentale, la famigerata PAS: nonostante l’assenza di fondamento scientifico e le chiare indicazioni contrarie del Csm (delibera 2022), del Ministero della Salute e della Corte di Cassazione, il costrutto dell’“alienazione parentale” e delle sue varianti continua a riemergere in numerose perizie italiane. La sua funzione effettiva è quella di neutralizzare la parola materna, trasformando la protezione dei figli in un sospetto patologico.
Così, quando la Pas entra nei fascicoli, svaluta la testimonianza della donna, oscura il comportamento dell’uomo violento, rafforza l’idea che la madre manipoli i figli, produce affidamenti forzati e allontanamenti traumatici. È uno degli strumenti più efficaci di vittimizzazione istituzionale: non violento in apparenza, devastante negli effetti.
Ecco che la violenza si procrastina anche attraverso le istituzioni: il sistema si fa arma contro le donne e in Italia avvocate e operatrici dei centri antiviolenza raccontano sempre più frequentemente casi di “violenza amministrativa”. L’aggressore utilizza il processo come prolungamento del controllo, attraverso ricorsi, opposizioni, querele, richieste di revisione dei provvedimenti.
La donna resta impigliata nella macchina giudiziaria, costretta a rivivere la violenza in modo burocratico, diluito ma costante, senza fine. È ciò che gli studi criminologici definiscono violenza istituzionalizzata per procura: l’istituzione non è autrice diretta di violenza, ma diventa terreno fertile per la sua prosecuzione.
Una particolare e drammatica categoria è quella delle donne che, dopo anni di maltrattamenti, hanno reagito in situazioni estreme. In Italia, alcune di loro – non riconosciute vittime e anzi gravemente condannate – vivono sotto misure restrittive: obblighi di firma, controlli notturni, limitazioni degli spostamenti, monitoraggi invasivi, interdizione dai pubblici uffici e dall’elettorato. Pur lavoratrici, pur sostentamento dei figli, sono sottoposte a misure spesso automatiche, applicate per necessità procedurale, ma che in questi casi generano una punizione in chiave penale certamente a tempo ma percepita come surreale. Il paradosso è feroce: la loro autodifesa diventa un elemento da sorvegliare più della violenza subita. Molte testimoniano che la notte rimane il luogo del terrore: non più per il rientro dell’uomo violento, ma per il suono improvviso del citofono da parte degli operatori incaricati dei controlli.
E non finisce qui: lo sguardo sociale diviene in questi casi un vero e proprio dispositivo di controllo in quel fenomeno noto come vittimizzazione terziaria: quando un caso entra nello spazio pubblico, diventa rapidamente un simbolo, un campo di battaglia ideologico e la donna viene disumanizzata in due direzioni opposte: vittima esemplare, da compatire ma non ascoltare davvero oppure donna ambigua, troppo forte o troppo fragile, quindi sospetta.
I media italiani – salvo rari casi – costruiscono narrazioni che oscillano tra la spettacolarizzazione della sofferenza e la patologizzazione del comportamento femminile: la donna diventa “la madre che ha sbagliato”, “la compagna emotivamente instabile”, “quella che non ha saputo mantenere l’unità familiare”. È un giudizio sociale che punisce soprattutto l’atto più rivoluzionario: essersi sottratta.
E allora ripensare la giustizia come struttura democratica si fa necessità, non semplice auspicio. Montesquieu osservava che la giustizia non può fallire senza trasformarsi in tirannia.
La tirannia di cui parliamo non è quella eclatante dei regimi: è una tirannia minima, burocratica, fatta di ritardi, scetticismo, automatismi, stereotipi di genere in aula. È la tirannia che chiede alla donna di dimostrare la propria necessità di essere protetta.
Eppure, la violenza di genere non è solo una questione penale: è un indicatore della qualità democratica di un Paese e se istituzioni, tribunali, servizi sociali e media non riescono a riconoscere la natura sistemica della violenza, la democrazia stessa si incrina.
Riconoscere la parola delle donne non è un atto di cortesia istituzionale: è un prerequisito per l’esercizio effettivo dello Stato di diritto e la giustizia che serve non è quella in grado di consolare ma quella in grado di vedere.
Hannah Arendt ci ricorda che la libertà non è un dono, ma un compito. E ogni compito collettivo necessita di un esercizio fondamentale: la capacità di vedere il reale. Riconoscere la violenza non significa credere automaticamente a tutto; significa sospendere gli automatismi culturali che hanno storicamente negato la parola femminile; significa considerare che l’asimmetria di potere è parte integrante della violenza, non un effetto collaterale.
Il futuro della giustizia sulle violenze di genere non appartiene né al formalismo né alla compassione, bensì alla responsabilità di vedere interamente ciò che accade, senza allinearlo alle narrazioni comode. Solo una giustizia capace di guardare senza filtri può interrompere la spirale della vittimizzazione secondaria e terziaria: nessuna democrazia può dirsi compiuta finché il diritto a esistere senza paura, a denunciare ed essere credute, a sentirti tutelate dal sistema, continuerà a essere oggetto di prove, verifiche e sospetti.
Eleonora De Nardis è giornalista e scrittrice
























