Letterio Buonomo non è morto di disperazione, ma di burocrazia. L’ha spinto giù un timbro, non il vento. Quando l’ufficiale giudiziario ha citofonato, non ha trovato un abusivo, ma un cittadino che chiedeva solo di restare al caldo ancora un mese. E invece no, il calendario delle esecuzioni non conosce pietà, solo scadenze.

Si dirà che la legge è uguale per tutti, anche per chi non ha più nulla. Ma la legge, in Italia, somiglia a un portone blindato: chi sta dentro si sente protetto, chi resta fuori bussa finché non crolla. L’atto del settantunenne milanese è un urlo burocraticamente corretto, protocollato in silenzio sotto la voce “suicidio per sfratto”.

Eppure, se ci fosse un’anagrafe della vergogna, questo Stato ci finirebbe dentro a pieno titolo. Un Paese che investe in armi ma risparmia sugli affitti sociali, che chiama “emergenza abitativa” ciò che è una politica di abbandono, che firma decreti per la casa come fossero condoglianze.

Il custode di Sesto San Giovanni ha custodito tutti, tranne sé stesso. E alla fine ha consegnato le chiavi a modo suo, volando via. Forse pensava che da lassù non si pagasse più la pigione. Ma di certo, in quel volo, ha lasciato a terra un’Italia che continua a scacciare i suoi poveri come fossero fantasmi.

Intanto domani, alle nove, un altro ufficiale busserà a un’altra porta. E lo chiameranno ancora “atto dovuto”. E qualcuno annoterà l’orario, firmerà un verbale, invierà un fax. Tutto regolare, tutto conforme, tutto umano sulla carta. Poi torneranno a casa, accenderanno il telegiornale, e sentiranno dire che l’economia cresce, che i salari migliorano, che il Paese è in ripresa, che i sondaggi sorridono dal balcone vista baratro.