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Banchi e sedie accatastati sbarrano l’ingresso, cartelloni e striscioni pro Gaza coprono i cancelli chiusi. Così si presenta in questi giorni il liceo classico statale “Nicola Spedalieri” di Catania, dopo la decisione degli studenti di occupare l’istituto scattata nella serata del 6 ottobre.
L’occupazione arriva dopo settimane di mobilitazione, culminate nella scelta collettiva di dare voce a un dissenso che intreccia la guerra in Palestina con le questioni sociali e scolastiche italiane. In una nota ufficiale, gli studenti ricordano la partecipazione allo sciopero generale del 22 settembre, l’assemblea straordinaria del giorno successivo, l’autogestione del 2 ottobre e lo sciopero generale del 3 ottobre: “Tutti questi gesti - scrivono - sono stati discussi e ritenuti necessari da tutta la comunità studentesca”.
Il motore principale dell’azione è la solidarietà al popolo palestinese e la condanna delle politiche israeliane, considerate “disumane” e “responsabili di un apartheid che danneggia in modo permanente il popolo palestinese”. La critica si estende anche ai governi occidentali, accusati di anteporre “il capitale alla vita”, e al governo italiano, ritenuto colpevole di “celata indifferenza” verso il conflitto.
Ma la protesta guarda anche alla scuola, accusata di diffondere una “didattica della paura” e di reprimere il dissenso, educando “alla cieca accondiscendenza verso l’autorità”. È una denuncia che rivela un malessere più profondo: la scuola percepita non più come luogo di formazione critica e democratica, ma come meccanismo selettivo, legato a logiche aziendali e produttiviste.
Per questo, l’occupazione viene interpretata dagli studenti come un atto di resistenza e libertà, un modo per “creare spazi di confronto e organizzazione” alternativi all’educazione “della paura e dell’obbedienza”.
Osservare un’occupazione da docente è sempre un momento di tensione interiore: da un lato la preoccupazione per ciò che si interrompe, lezioni, programmi, continuità scolastica, dall’altro la consapevolezza che dietro quel gesto c’è un bisogno autentico di parola e di senso. L’occupazione dello Spedalieri non è solo una presa di posizione sulla guerra in Palestina, ma un grido generazionale per reclamare spazi di confronto in un tempo in cui la partecipazione viene scambiata per ribellione e il dissenso per disobbedienza.
Questi ragazzi ci ricordano che educare significa anche coltivare la libertà di pensiero. Nel loro gesto c’è una richiesta di ascolto più che di scontro: la volontà di riappropriarsi del linguaggio politico e trasformare le aule in laboratori di pensiero e resistenza. E se i loro modi possono apparire radicali o discutibili, l’energia che li muove è la stessa che ha attraversato ogni stagione di cambiamento: la convinzione che la scuola debba essere un luogo vivo, critico e libero.
Come insegnante, mi chiedo se non sia questo il segno più chiaro che la scuola, nonostante tutto, funziona ancora, perché riesce a generare pensiero critico, passione, voglia di giustizia. E forse, proprio in questa occupazione, c’è una lezione che anche noi adulti dovremmo imparare: quella di non temere il dissenso, ma di saperlo ascoltare e trasformare in dialogo.