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Ma non era “sono una donna, sono una madre, sono italiana”, tutta difesa dei valori sacri della famiglia e della moralità? Sembra incredibile che si possa tornare indietro di cinquant’anni, eppure è così. Due senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan e Salvo Pogliese, hanno presentato un emendamento che sembra una battuta di black humour, perché propone la “modifica al codice della strada” con l’abrogazione di tre commi. Ovvero quelli contenuti nella norma approvata nel 2021, che stabilisce il divieto “sulle strade e sui veicoli” di “qualsiasi forma di pubblicità il cui contenuto proponga messaggi sessisti o violenti o stereotipi di genere offensivi o messaggi lesivi del rispetto delle libertà individuali”. I due senatori hanno chiesto anche di abrogare il divieto di pubblicizzare messaggi non rispettosi “dei diritti civili e politici, del credo religioso o dell’appartenenza etnica, oppure discriminatori con riferimento all’orientamento sessuale, all’identità di genere o alle abilità fisiche e psichiche”.
Per Fdi il divieto di pubblicità sessista limita la libertà di espressione
I tre commi puntavano a sanzionare la pubblicità discriminatoria, ma secondo i due senatori FdI sarebbero limitanti della libertà di espressione. “In un periodo in cui l'Italia fa fatica a contrastare la violenza maschile e ad affermare la piena cittadinanza delle donne, riteniamo scellerato e improponibile la cancellazione di norme a tutela dei diritti e contro discriminazioni e contenuti sessisti e violenti", commenta Elisa Ercoli. La presidente di Differenza Donna si dice pronta a preparare una reazione civile e determinata, e ad usare tutti gli strumenti legali necessari “per mettere in discussione tale scellerata azione. Ciò che non può essere accettato è una visione che riporta la minimizzazione della violenza e del sessismo e una sua antica e rinnovata presentazione goliardica”.
Si chiama discriminazione, non goliardia
Decenni di riflessione etica da parte dei professionisti della comunicazione spazzati via dall’emendamento Malan, mentre in Italia si fa ancora fatica a parlare di educazione al rispetto e all’affettività. Si pensi all’istituzione della Fondazione pubblicità progresso nel 1971, con l’obiettivo di stimolare la coscienza civile ad agire per il bene comune. O ancora alla nascita dello Iap, l’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria, che tramite il Codice di autodisciplina fissa i parametri per una comunicazione commerciale “onesta, veritiera e corretta”.
La lettera aperta ai senatori
“A cosa servono campagne sociali che incoraggiano la parità di genere – si chiede il coordinamento di Se non ora quando - come succede negli altri Paesi europei perché valutata come fattore di crescita nazionale, per rivendicare i diritti delle donne, far conoscere le leggi faticosamente conquistate negli anni e difenderle perché valgano davvero?". Il coordinamento ha inviato una lettera aperta ai senatori e alle senatrici della nona Commissione permanente, lanciando una protesta a cui anche il dipartimento politiche di genere della Cgil ha deciso di aderire. I gruppi e le associazioni in difesa dei diritti delle donne, che quotidianamente lottano per scardinare luoghi comuni e stereotipi, hanno già denunciato questo emendamento che prosegue la lettera, “ci fa arretrare culturalmente, frutto di una mentalità a dir poco inquietante”.
No agli stereotipi sui cartelloni
“Alcune pubblicità travalicano il loro ruolo e divengono pensiero accettabile e diffuso, si depositano nel terreno emotivo di chi le assorbe anche distrattamente e possono diventare pensiero comune – conclude la lettera aperta -. Vogliamo davvero che la pubblicità trasmetta stereotipi femminili sessisti che rispecchiano la diffusa mentalità paternalista e patriarcale, un luogo comune radicato, un pensiero diseducativo che ha plasmato le menti e i comportamenti di milioni di uomini?”. La nostra risposta è, senza alcun dubbio, no.