Cessate il fuoco non è pace. È solo il rumore interrotto della guerra, il respiro trattenuto delle bombe, il lusso momentaneo di poter distinguere il silenzio dal boato. Serve per raccogliere i corpi, per rifornire gli arsenali, per scrivere comunicati in toni misurati. È una tregua di facciata, un intervallo con l’orchestra che accorda gli strumenti mentre il sangue si asciuga. La morte si prende un caffè, poi torna, più lucida e organizzata di prima.

La pace è un’altra faccenda. È un verbo coniugato al futuro, non un sostantivo stanco da conferenza stampa. Pretende giustizia, acqua, elettricità, scuole, memoria, dignità. Non tollera check-point, recinzioni o cieli chiusi ai sogni. È una parola militante, e come tutte le parole che fanno paura ai potenti, viene svuotata finché non resta che un guscio sonoro buono per i titoli dei telegiornali.

Chi si accontenta del cessate il fuoco firma la proroga dell’ingiustizia. La violenza dorme, ma tiene le scarpe ai piedi. A Gaza, a ogni tregua, le macerie restano: solo più ordinate, più fotografiche, più digeribili. E intanto le parole — sicurezza, equilibrio, necessità — si stendono come cerotti sull’orrore. È l’igiene morale dell’Occidente: pulire il linguaggio per non sentire la colpa, disinfettare la realtà con lessico diplomatico.

Chiedere la pace significa smettere di chiedere il permesso di esistere. Significa pretendere che il diritto alla vita valga per tutti, non solo per chi ha un esercito o una narrazione vincente. La pace è costruzione, non pausa. È politica, non pietà. È la scelta di guardare il dolore dell’altro come proprio.

Il cessate il fuoco è l’intervallo. La pace, se mai arriva, è lo spettacolo nuovo. Ma serve cambiare regia, cambiare copione, cambiare mondo. Altrimenti, quando il sipario si rialza, sul palco restano sempre gli stessi morti. E in platea gli stessi applausi ipocriti.