L’aula della Camera, più che un luogo della Repubblica, è sembrata l’altro giorno una succursale del bar sport sotto casa: mani alzate, grida liberatorie, il tifo organizzato che festeggia il gol dell’ultimo minuto. Non era però una partita di coppa, bensì l’approvazione di un disegno di legge che manomette la Costituzione. Il governo e la sua maggioranza hanno mostrato la loro “cultura istituzionale”, l’idea che le regole del gioco non siano patrimonio comune, ma terreno di caccia per chi ha i numeri.

Calamandrei ammoniva che, quando si scrive di Costituzione, i banchi del governo dovrebbero restare vuoti. Oggi restano vuoti quelli del Parlamento, ridotto a figurante muto mentre l’esecutivo, con il piglio del padrone, detta legge costituente come fosse una manovrina da approvare con fiducia e fretta. La separazione dei poteri evapora in un brindisi di maggioranza, e l’indipendenza della magistratura si riduce a rumoroso fastidio da zittire.

Non è solo questione di forma, qui la sostanza è che si sta trasformando la Carta in proprietà privata, un condominio in cui la maggioranza di turno decide di cambiare regolamento per garantirsi l’attico vista Colle. Si fa credere che l’operazione migliori la giustizia, quando in realtà ne mina le fondamenta: uguaglianza, equilibrio, autonomia. Tutto sacrificato al mito dell’efficienza, parola magica che giustifica ogni abuso.

E così l’esultanza diventa la firma in calce alla sconfitta dello spirito repubblicano. Più che celebrare un trionfo democratico, si festeggia la colonizzazione di un bene comune. È l’ennesimo atto di un governo che, dopo essersi impossessato della decretazione d’urgenza e delle fiducie seriali, vuole l’intero mazzo delle funzioni dello Stato.

Non si tratta di nostalgia costituzionale ma di lucidità politica: chi oggi applaude all’imbarbarimento delle regole domani ne pagherà il prezzo. La Costituzione non è coriandolo da gettare in aria a ogni cambio di stagione, ma l’architrave che tiene in piedi le nostre libertà. Ed è compito di chi non si rassegna impedire che venga ridotta a trofeo di una curva parlamentare ubriaca di sé stessa.