Italiani brava gente, ma solo se il prossimo è ben lontano. Magari in un resort in Egitto o nei racconti zuccherosi della nonna su quando accoglieva gli albanesi “per carità cristiana”. Ma quando si parla di dare la cittadinanza a chi è nato e cresciuto qui, magari con l’accento romanesco e il sogno di votare, ecco che parte l’orticaria nazionale.

Perché, diciamolo, il referendum sulla cittadinanza ha mostrato un’Italia moderna e pragmatica: abbiamo deciso che l’integrazione funziona solo se resta precaria. Un po’ come i contratti a termine. Del resto, che fretta c’è a regolarizzare chi già studia, lavora, paga le tasse e canta l’inno con più convinzione dei tifosi azzurri? Meglio tenerli lì, sospesi, italiani a metà. Così ci sentiamo ancora padroni a casa nostra, anche se la casa crolla e i padroni stanno in Svizzera.

L’idea che concedere diritti porti a una società più coesa è troppo rivoluzionaria per il nostro stomaco conservatore. Preferiamo la concorrenza sleale, purché non sia anche cittadina. Vogliamo manodopera, ma muta. Braccia, non teste. Gambe, non opinioni. In fondo, la nostra paura non è l’invasione: è l’uguaglianza. Perché uno straniero regolare che vota è un cittadino. E un cittadino è un nostro pari. E a noi i pari, storicamente, non piacciono.

Meglio allora raccontarci che dietro ogni richiesta di cittadinanza si nasconde un piano segreto: rubare il posto a scuola, il lavoro, la corsia preferenziale al pronto soccorso. Ignorando che quei ragazzi sono già lì. Da anni. A scuola, al lavoro, in corsia. Un complotto silenzioso, orchestrato da ventenni che leggono Dante meglio di noi e fanno volontariato la domenica. Il sospetto diventa principio, l’eccezione la regola.

L’italianità, a quanto pare, non si misura in anni vissuti, scuole frequentate o lingue parlate, ma in un vago senso di appartenenza ereditario. Un privilegio da custodire, non un’identità da condividere. Come se nascere altrove fosse una colpa da scontare a vita, anche quando quella vita è stata tutta vissuta qui.