Gaza gela e noi ci scaldiamo con la casa nel bosco. Lì il vento strappa le tende come fossero fogli di carta, qui ascoltiamo opinioni sulla pedagogia per corrispondenza. Ogni notte a Rafah il freddo entra nelle ossa, la tregua si è dissolta e i generatori tossiscono luce stremata. Eppure l’eco che risuona nei nostri dibattiti e nelle nostre coscienze è quella di un sottobosco abruzzese diventato rifugio narrativo per chi teme di guardare la realtà in faccia.

Nelle strade acciottolate di Khan Yunis la gente avanza tra macerie che scricchiolano sotto la pioggia. È un inverno che punge come un’accusa. Qui, invece, basta evocare un casolare isolato per riempire studi tv e pagine assortite, mentre la vita palestinese si spegne con una regolarità assordante, troppo scomoda per bucare il nostro schermo anestetizzato.

Ogni giorno laggiù ci sono bambini che dormono in angoli gelidi, donne che attraversano pozze di fango nero per cercare pane, uomini che seppelliscono i loro morti in silenzio. Ogni giorno qui celebriamo il talento nazionale per la digressione. Il bosco funziona da sonnifero morale. È domestico, rassicurante, modellabile. Gaza invece urla e ci chiede di smettere di giocare con le foglioline mentre il mondo attorno brucia.

L’assedio continua tra fame, malattie, assalti di coloni in Cisgiordania e un’assuefazione che diventa arma. Nessun talk degno di questo nome osa fissare questa voragine. L’umanità sospesa tra tetti di lamiere divelti e scuole sbriciolate non offre il conforto che serve a una nazione impegnata a fingere stabilità. Meglio discutere di pannelli solari, pozzi e funghi avvelenati.

E allora eccoci qui, con il Mediterraneo ridotto a specchio concavo: riflette solo ciò che fa comodo. Gaza è il vero bosco, folto di ingiustizie, rami spezzati, ferite aperte. Il casolare abruzzese è invece l’approdo che stuzzica l’ego di noi genitori modello e di spettatori distratti. Seduti sul comodo divano di casa, col telecomando in pugno pronti ad abbassare o alzare il volume della nostra coscienza.