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Diciamolo, la parola “patrimoniale” spaventa più del buio. Eppure chiamarla “contributo di solidarietà” è quasi un atto di fede, un gesto liturgico che evoca un’etica smarrita: chi ha molto dona una briciola a chi ha poco. Ma in un Paese dove il capitale è trattato come una reliquia e la villa al mare vale più del diritto alla salute, proporre di tassare i patrimoni sopra i due milioni di euro equivale a bestemmiare in chiesa. Il denaro, si sa, ha il senso del sacro quando è il proprio.
Naturalmente i milionari si sentono perseguitati. Da secoli inseguono la meritocrazia come fosse un diritto divino e ora temono che qualcuno li confonda con chi lavora. Ma la verità è che non li insegue nessuno: basterebbe fermarsi un momento e contribuire. Un modesto 1,3% per dimostrare che anche il capitale ha un’anima. E se l’anima si rifiuta c’è sempre il fisco, l’unico esorcista che funziona.
Ventisei miliardi di euro: non un esproprio, ma un atto d’igiene pubblica. Denaro che tornerebbe a illuminare ospedali, scuole, trasporti, quelle infrastrutture invisibili che i ricchi usano di meno ma che garantiscono la pace sociale di cui godono. Perché anche il più blindato dei Suv si muove su una strada asfaltata coi soldi di chi paga l’autobus.
Chi si scandalizza per il contributo confonde la giustizia con l’invidia. In realtà è il contrario dell’odio di classe. Una carezza fiscale, un invito alla convivenza civile. Tassare i ricchi non è punirli, è restituirli al consorzio umano da cui si sono gentilmente eclissati.
In fondo, chiedere un contributo a chi vive nell’abbondanza è un gesto d’amore verso la libertà. Perché una democrazia in cui solo i poveri pagano è una recita di uguali dove il copione lo scrive il padrone. Meglio allora un po’ di solidarietà obbligatoria, fa bene al bilancio ma soprattutto all’anima di chi la versa, e di chi ancora crede che la giustizia non si conti in milioni.






















