PHOTO
Il 2 giugno è come quella zia ingioiellata che si presenta al pranzo di famiglia in tailleur tricolore, mentre tutti fingono di non sapere che la casa gliela stanno pignorando. Festa della Repubblica, certo. Ma di quale Repubblica parliamo? Quella nata dalla Resistenza, cresciuta tra l’articolo 1 e il suffragio universale, o quella che la nostra amata premier sta ristrutturando con cazzuola e propaganda?
Un puzzle impazzito dove chi non combacia finisce nella scatola “pezzi difettosi”. Migranti, precari, voci fuori dal coro: tutti etichettati “non conformi”. Largo alla narrazione muscolare: virile, compatta, marziale. E la Costituzione si accartoccia come un dépliant da cerimonia, versione santino istituzionale.
Viene il dubbio che questa Nazione meloniana ci rappresenti quanto un ologramma distopico in 4K, settato sulla modalità “obbedienza automatica”. Il premierato è la ciliegina: la democrazia ridotta a piramide con Wi-Fi solo al vertice. Il Parlamento? Silenziato. Il Presidente? Addobbo. Il popolo? Solo se ripete il copione. È la riforma che spaccia comando per efficienza e accentramento per modernità. In pratica: un Paese sempre più a forma di corona, ma senza sfarzo, solo controllo.
Intanto, tra fanfare e alzabandiera, si dimentica che l’8 e il 9 giugno è lì che la democrazia succede davvero. Non in parata, ma in cabina: su lavoro e cittadinanza. Parole scomode, troppo umane per la liturgia identitaria. Parlano di chi vive senza documenti, lavora senza tutele, esiste senza chiedere il permesso. Temi indigesti per chi preferisce confini sotto vuoto e slogan stirati.
Festeggiamola pure, questa Repubblica. Ma scegliamo. Vogliamo quella dei principi o dei proclami? Quella che unisce o quella che seleziona? Se non vogliamo svegliarci in una Patria col copyright, conviene affilare la matita. E usarla come si deve.