Ogni 4 novembre l’Italia si risveglia col passo dell’oca del ricordo. Si lucidano medaglie, si inchiodano corone, si mette la voce in posa. Si parla di pace ma si sfoggia la guerra come bigiotteria nazionale. Rispetto per chi serve lo Stato, certo, ma l’ipocrisia è servita in alta uniforme. Un Paese che confonde il lutto con lo spettacolo e l’onore con la nostalgia del comando.

A sfilare i capi del patriottismo d’ordinanza. Meloni in posa da madre patria, La Russa con lo sguardo lucido da figurante del Ventennio, Crosetto che giura amore ai soldati mentre firma assegni ai fabbricanti di bombe. Ogni missile un fiore all’occhiello, ogni appalto un atto di fede. Così il bilancio di Stato diventa un catalogo di munizioni e la moralità si misura in tonnellate di acciaio.

Mentre loro contano droni e parate, il Paese reale arranca tra pronto soccorso allo stremo, stipendi da fame, scuole sventrate. Ma la politica preferisce giocare alla guerra invece di riparare la vita. L’adrenalina del potere vale più della fatica di governare. E il frastuono delle celebrazioni serve solo a coprire il cigolio dei tagli.

Eppure la forza vera starebbe altrove. Nella calma di chi cura invece di ferire, di chi studia invece di obbedire, di chi costruisce senza chiedere applausi. Basterebbe spostare lo sguardo: dalla fabbrica del piombo alle cancellerie, dalle urla sguaiate dei propri orticelli ai ragionamenti pensanti che guardano oltre. Ci vuole una rivoluzione sobria ma spietata, capace di togliere la divisa anche al linguaggio.

Perché i veri patrioti oggi non sfilano e non sparano. Curano, insegnano, accolgono, protestano. Difendono la vita, non i confini. E mentre i potenti giocano alla geopolitica, loro restano l’unica trincea dove la pace ha ancora un volto umano. Gli unici, davvero, che meritano l’onore delle armi. Rigorosamente disinnescate.