Il 27 maggio del 1923 - cento anni fa - nasceva a Firenze don Milani, la cui figura è strettamente legata all’esperienza didattica rivolta ai bambini della scuola di Barbiana, un piccolo borgo sperduto sui monti della diocesi di Firenze. 

La scuola impegnava i ragazzi tutto il giorno, tutti i giorni dell’anno. Si praticava la tecnica della scrittura collettiva; si leggevano i quotidiani, si discutevano e si scriveva insieme il commento. Erano previste conferenze e incontri settimanali con sindacalisti, politici, intellettuali con l’obiettivo di emancipazione delle classi subalterne e della realizzazione dell’uguaglianza.

“Don Milani - scrive Elisa Chiari - accoglie i diseredati, quelli senza un’alternativa, rifiutati dalle scuole ufficiali, provenienti dalle case della zona o portati dagli amici, tra loro due fratelli orfani Michele e Francuccio Gesualdi, che gli crescono in casa come figli”

Durante il periodo a Barbiana, il don pubblica tre testi: Esperienze pastorali, L’obbedienza non è più una virtù, Lettera a una professoressa.
 

“Cara signora - si legge in quest’ultima - lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che ‘respingete’. Ci respingete nei campi e nelle fabbriche e ci dimenticate. Due anni fa, in prima magistrale, lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non esser visto. Sul principio pensavo che fosse una malattia mia o al massimo della mia famiglia. La mamma è di quelle che si intimidiscono davanti a un modulo di telegramma. Il babbo osserva e ascolta, ma non parla. Più tardi ho creduto che la timidezza fosse il male dei montanari. I contadini del piano mi parevano sicuri di sé. Gli operai poi non se ne parla. Ora ho visto che gli operai lasciano ai figli di papà tutti i posti di responsabilità nei partiti e tutti i seggi in parlamento. Dunque son come noi. E la timidezza dei poveri è un mistero più antico. Non glielo so spiegare io che ci son dentro. Forse non è né viltà né eroismo. È solo mancanza di prepotenza”.


Su Lettera a una professoressa si terranno seminari in tutte le università occupate, alla Biennale di Venezia del 1968 diventerà uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo, gli insegnanti lo useranno per sperimentare nuove forme di didattica.

Ma don Milani non è solo Lettera a una professoressa. Don Milani sarà, tra i primi, a denunciare la necessità e virtù dell’obiezione di coscienza all’inquadramento militare e alla guerra. È il febbraio del 1965 ed i cappellani militari della Toscana rilasciano su La Nazione un comunicato che, nel ricordare e celebrare i caduti di tutte le guerre, definisce “un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza, che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.

A loro il prelato risponde con una lettera che sarà ripresa anche dal periodico comunista Rinascita: “Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri - dirà - allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri”.

Alla risposta ai cappellani militari reagiranno in molti, ma sarà un esposto presentato alla procura di Firenze da un gruppo di ex combattenti “profondamente e dolorosamente feriti nel loro più sacro patrimonio ideale di cittadini e di soldati” a dare il via all’azione legale contro il priore di Barbiana (il sacerdote subirà per la vicenda due processi per apologia di reato: il primo di assoluzione con formula piena ‘perché il fatto non costituisce reato’; il secondo, in appello, di condanna con ‘reato estinto per la morte del reo’) e il direttore di Rinascita, Luca Pavolini

Don Milani scrive insieme ai suoi ragazzi la sua autodifesa, facendo della Lettera ai cappellani e della Lettera ai giudici non sono solo una difesa dell’obiezione di coscienza o una condanna dei vertici dell’esercito italiano, ma una lezione impartita ai suoi allievi su una giusta interpretazione del concetto di libertà e obbedienza:
 

“Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto più se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita. Dovevo ben insegnare come un cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande: I CARE. È il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. È il contrario esatto del motto fascista ‘me ne frego’. Non posso dire ai miei giovani, che l’unico modo d’amare la legge è d’obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate. Quando è l’ora non c’è scuola più grande che pagare di persona un’obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco perché qualcuno possa confonderlo con l’anarchico. (…) Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l’ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l’Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l’autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima (…) Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d’aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime! Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani. Nessuno di loro è venuto su anarchico. Nessuno è venuto su conformista. Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio favore”.


Don Lorenzo Milani muore a 44 anni il 26 giugno del 1967 in via Masaccio a casa della madre dove ha trascorso gli ultimi mesi di vita. Ai suoi ragazzi lascia un testamento che si conclude così: “Caro Michele, caro Francuccio, cari ragazzi, non è vero che non ho debiti verso di voi. L’ho scritto per dar forza al discorso! Ho voluto più bene a voi che a Dio. Ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo”.