Il 16 luglio del 1947 quarantaquattro bambini milanesi della colonia marina di Loano annegano ad appena cento metri dalla spiaggia di Albenga. Due giorni dopo, il 18 luglio, Gianni Rodari - il maestro, il poeta dell’infanzia - scrive il suo primo articolo per l’edizione milanese de LUnità.

Così Fidia Gambetti, caporedattore di cronaca, descriveva quel giovane ventisettenne di cui tanto il mondo sentirà parlare: “Ultimamente sono arrivati in redazione colleghi giovani e meno giovani. Dalle province della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto; da altri giornali; dall’attività politica (…) un altro ‘personaggio’, fra i nuovi è Gianni Rodari. Lavora in cronaca, allegro, pronto alla battuta, con quel suo viso da ragazzo, un ciuffo di capelli renitenti al pettine, sempre sugli occhi pungenti e arguti. Quando lui è presente, in cronaca è spettacolo: fa discorsi o recita in vari dialetti, imita o fa il verso a questo o a quello; improvvisa originali e divertenti filastrocche che talvolta si ritrovano scritte qua e là sui tavoli e sui muri”.

Un uomo, Gianni Rodari, capace di strappare un sorriso anche al più burbero degli adulti, al più malinconico dei bambini. Un poeta capace di divertire, ma allo stesso tempo commuovere.

"Tutte le mamme di Milano hanno pianto - scriveva quel 18 luglio 1947 -. Fin dal mattino grigio la notizia ha pesato sul cuore di Milano, quasi incredibile, quasi assurda. Le voci degli strilloni erano quelle di tutti i giorni: gridavano alle fermate dei tram le cifre spaventose della tragedia con accento stanco, professionale. Dal balcone del Municipio penzolava inerte la bandiera listata a lutto. A quell’ora i milanesi si recavano al loro lavoro. La prima inesprimibile sensazione di sgomento, ognuno se la teneva in petto, la sentiva ingigantire d’ora in ora, mentre la cifra non si fermava e ognuno ripeteva meccanicamente i gesti di ogni giorno"

Ma in tutte le case di Milano, ieri, si è pianto. Le madri hanno vestito i loro bimbi, come ogni mattina hanno ravviato i cari capelli col pettine bagnato, hanno ascoltato il loro chiacchiericcio di uccellini che il sole sveglia tra i rami, hanno piegato il ginocchio ad allacciare le fibbiette ai sandali: i bimbi sono scesi nei cortili, le madri li hanno uditi giocare, si sono affacciate alle improvvise risse subito dimenticate, si sono sentite stringere indicibilmente il cuore.

Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto. Come non è vero che si può piangere solo per egoismo, per la gioia distorta di saper salvi i propri cari da una sciagura che è piombata invece terribile su altri! Le mamme di Milano hanno pianto per i quarantaquattro morticini di Albenga: ogni mamma si è sentita ieri madre di quarantaquattro piccoli annegati, ha sentito le invocazioni strozzate dalle onde, ha pianto le sue lacrime sui teneri petti dove il cuore ha taciuto per sempre (…)".

Su L’Unità Gianni Rodari scrive da comunista (la sua gestazione politica è graduale, ma nel 1943 quando cade il fascismo, non ha esitazioni, prima nel fiancheggiare la Resistenza, poi nell’entrarci in prima persona aderendo alla 121esima brigata Garibaldi di Gavirate; sono gli stessi organizzatori a chiedergli di entrare nella Resistenza), ma un comunista che ha come riferimento non i dirigenti di partito e i colleghi - come spesso accade in redazione - ma i lettori, gli operai del nord, i contadini del sud.

La sua caratteristica fondamentale è quella di un giornalismo che ha l’aspetto di un racconto, umano, semplice, ma allo stesso tempo pregno di una cultura trasversale e ricchissima. La penna del poeta incrocia più volte nella sua storia la vita della Cgil, a partire dal suo rapporto preferenziale con Giuseppe Di Vittorio.

Lo conosce, lo stima, ne scrive almeno in due occasioni: nel 1954 quando racconta ai bambini sul Pioniere (n. 18, 2 maggio 1954) l’infanzia di Peppino e nel 1977 su Paese Sera quando scrive in occasione del 20° anniversario della sua scomparsa.

Sarà sempre lui a raccontare il massacro di Modena, con parole che, ancora a distanza di più di 70 anni, commuovono: “La città gloriosa - scrive - ammutolita dal dolore e stretta intorno ai suoi assassinati del 9 gennaio si è riempita stamani di passi pesanti che popolavano le sue strade, le sue piazze (…) I sei avevano l’espressione contratta del dolore e dello spaventoso stupore in cui li sorprese la morte. Caduti allineati l’uno a fianco dell’altro nelle bare avvolte in bandiere. I tre ragazzi di 20 anni sembravano ancora vivi e la terribile espressione dei loro volti sembrava dovuta ad un sogno angoscioso e passeggero… Sulle fotografie i volti sembravano anche più giovani. Garagnani e Malagoli avevano una luce quasi infantile (…) Le bare erano portate a spalla da operai, ferrovieri tramvieri, braccianti. Su ognuna di esse un modesto cartello col nome e l’età del caduto: Appiani Angelo, anni 20; Bersani Renzo, anni 21; Garagnani Ennio, anni 21; Chiappelli Arturo, anni 43; Malagoli Arturo, anni 21; Rovatti Roberto, anni 36. Niente altro. Da tutti i muri della città le fotografie dei caduti rispondevano a quei cartelli. Dietro le bare camminavano i familiari composti nell’atroce dolore. Alcuni di loro, poche ore dopo la morte dei loro cari, sono intervenuti al comizio di protesta a cui ha partecipato tutta la città, e solo la parola «eroismo» può definire questa capacità di fondere un dolore personale alla grande voce di una protesta collettiva”.