Il 15 Settembre 2008 è la data convenzionalmente associata all'inizio dell'ultima Grande crisi finanziaria e alla Grande recessione (anche se, nel corso dell'anno e mezzo precedente, vi erano stati in vari Paesi diversi fallimenti di istituti finanziari), i cui effetti si sono propagati fino a oggi. Quel giorno venne dichiarato l'avvio della procedura fallimentare del quarto gruppo bancario di investimento statunitense, Lehman Brothers, travolto dalle perdite legate alla crisi dei mutui immobiliari.

La Grande recessione ha definitivamente spezzato l'incantesimo di un mondo globale armonioso, cioè l'ordine – promosso e propagandato – del cosiddetto “Consenso di Washington” (e ha indotto l'insorgenza di movimenti politici tendenzialmente intolleranti verso le istituzioni democratiche). Persino Alan Greenspan, già presidente della Federal Reserve e acceso sostenitore dell'economia di mercato, ha dovuto ammettere il suo stato di incredulità davanti al fatto che, “un sistema il quale aveva funzionato per 40 anni eccezionalmente bene” fosse giunto al collasso. In realtà, durante i 40 anni cari a Greenspan – quelli connotati dalla liberalizzazione e deregolazione dei flussi di capitale – non è che le crisi finanziarie fossero scomparse.

La crisi del 2008, però, per il suo carattere sistemico, nonché per la sua ampiezza e profondità, andava a smentire tutta la pluridecennale retorica relativa all'efficienza del mercato che – dilatato fino a coprire la dimensione globale e supportato dai più recenti ritrovati della tecnologia delle comunicazioni e dell'ingegneria finanziaria – avrebbe dovuto assicurare una crescita economica ininterrotta ed equilibrata.

È noto che le economie capitalistiche si basano sul debito. Anche quando – nell'ambito del relativo quadro regolatorio – l'intermediazione finanziaria si svolge in modo abbastanza fluido, succede con ricorrenza che alcuni tipi e quantità di titoli finanziari diventino insostenibili. Nell'ambito del mercato, si compiono valutazioni errate, oppure le condizioni di mercato mutano repentinamente o, ancora, le informazioni a disposizione degli operatori sono distorte. In presenza di uno shock, le aspettative dei creditori si modificano al ribasso e le attività finanziarie possono essere cedute per ripianare le perdite.

Peggio ancora, se uno shock è generalizzato e si temono perdite ingenti, subentra il panico. I debitori vanno incontro a perdite di ricchezza e contrazione delle prospettive economiche e i creditori si catapultano in una corsa alla chiusura delle loro posizioni finanziarie. Se il mercato è aperto al mondo (e, come si sa, l'apertura dei mercati è stato uno dei tratti distintivi della globalizzazione liberista), le incertezze prima riportate si propagano molto facilmente, come un virus contagioso. Un'epidemia diviene una pandemia.

Euforia, panico e crolli sono endemici in un sistema basato sui mercati privati. Ecco perché il “Consenso di Washington”, con i suoi corollari di innovazioni nel campo finanziario (come le cartolarizzazioni e gli strumenti derivati), intensa deregolamentazione a livello nazionale e mutamento di indirizzo delle politiche pubbliche (abolizione delle restrizioni ai movimenti dei capitali) non poteva mancare di rivelarsi l'incubatore di rischio sistemico e della peggiore crisi avutasi dopo quella del 1929.

Eppure, a dieci anni dalla nuova conferma dell'instabilità intrinseca del capitalismo globale – e specialmente del settore finanziario – molto poco è stato fatto all'indirizzo di una seria riforma. Addirittura il presidente Usa Donald Trump, pur essendo egli il prodotto e l'emblema planetario della “reazione popolare” – seppure di destra – ai guasti della globalizzazione, e che si prodiga in un ripiegamento verso politiche protezionistiche e di chiusura, ha, fin dal suo insediamento, annunciato appoggio incondizionato alla deregolamentazione del settore finanziario, inoltrandosi fino al drastico ridimensionamento dei timidi interventi regolatori fatti approvare da Barack Obama (il Dodd-Frank Wall Street reform and consumer protection Act). E analoghe constatazioni possono farsi per le altre aree del mondo (perfino in Cina prevale un orientamento rivolto a un'ulteriore e piena liberalizzazione del mercato finanziario).

Ma soprattutto nulla è stato fatto per ovviare alla causa strutturale della crisi. Un ipertrofico processo di sostituzione di debito privato rispetto alla dinamica stagnante – o calante – dei redditi da lavoro. Le relazioni industriali sono ovunque troppo sbilanciate a sfavore dei lavoratori e delle loro organizzazioni sindacali e i “nuovi lavori” – soprattutto nei servizi –, sebbene caratterizzati dall'impiego delle più moderne piattaforme e tecnologie informatiche, non danno luogo a significativi aumenti di produttività.

Le grandi banche sono state salvate con risorse pubbliche e, grazie all'inondazione dei mercati con denaro a bassissimo costo, le agenzie di rating da loro stesse possedute continuano a pontificare e a tenere sotto ricatto – tramite il possibile declassamento dei titoli – interi Stati “sovrani”, e i corsi azionari delle principali Borse mondiali sono risaliti fino a picchi superiori ai livelli pre-crisi. Altrettanto non può dirsi per quanto concerne i salari e le condizioni di vita della popolazione lavoratrice (con le conseguenze, sul piano politico, che constatiamo anche in Italia). La fine della recessione, con il rilevamento statistico del miglioramento dei dati riguardanti il Pil e la disoccupazione, nonché il miglioramento delle condizioni del sistema creditizio, non implicano che la maggior parte della gente comune stia meglio.

Così, a distanza di dieci anni, si può ricavare che, se la gestione della crisi del 2008 fosse stata improntata a una vera regolamentazione finanziaria ai fini della stabilizzazione del settore e a un indirizzo politico all'insegna della rimozione delle disuguaglianze, avremmo avuto una più genuina ripresa e avremmo avuto gli strumenti per non essere colti impreparati quando sopraggiungerà la prossima crisi.