Se c’è una professione che in Italia sembra non conoscere crisi, questa è quella di “esperto di pensioni”, come conferma, tra le altre cose, la continua attenzione al tema dedicata da stampa e talk show. Con cadenza praticamente annuale, esattamente da 25 anni – la prima “grande e definitiva riforma” fu realizzata dal governo Amato nel 1992 – il tema è al centro del dibattito di politica economica e ogni volta che una riforma viene introdotta la si definisce come “ultima ed epocale”.

Così avvenne quando a dicembre 2011, durante i giorni dell’emergenza economico-finanziaria, venne introdotta la “riforma Fornero”, che, con durezza e mancanza di gradualità del tutto inedite nella storia delle continue riforme italiane, stabilì fra le altre cose, un repentino incremento dell’età pensionabile, riducendo in misura consistente le possibilità di ritiri anticipati. Così era avvenuto, due soli anni prima, quando con l’allora governo Berlusconi si definì il principio, tuttora in vigore, in base al quale tutti i requisiti per il pensionamento crescano automaticamente con l’evoluzione dell’aspettativa di vita.

Oltre all’asprezza e alla mancata gradualità dell’intervento del 2011 – e alla problematica relativa a chi, disoccupato, si ritrovò all’improvviso a vedere molto lontano il momento della pensione – ciò che stupì i commentatori più attenti agli equilibri economici e sociali, e non interessati ai soli saldi del bilancio pubblico, fu l’aver incrementato l’età pensionabile in modo omogeneo per tutti, senza tener adeguatamente in conto le molteplici eterogeneità individuali nella possibilità di prosecuzione dell’attività, a causa, ad esempio, di problemi di salute, vincoli familiari e, più in generale, di una limitata occupabilità.

Meritoriamente, il governo, nel nuovo piano di intervento di riforma previdenziale definito nella seconda metà del 2016, aveva individuato nell’assenza di flessibilità dell’età pensionabile un limite del sistema e aveva, da una parte, introdotto l’Ape sociale, per consentire il ritiro anticipato senza penalizzazioni economiche per alcune categorie di lavoratori svantaggiati e, dall’altra, aveva indicato fra le linee guida della cosiddetta “fase 2” della riforma – che si sarebbe dovuta delineare nel corso del 2017 – la definizione di ulteriori forme di flessibilità in uscita, che consentissero anche di tener conto delle differenze nella longevità, considerando che la vita attesa differisce in misura molto ampia fra individui con diverso status socio-economico, penalizzando in misura consistente i meno abbienti: basti citare che, fra gli uomini, un operaio non qualificato vive, in media in Italia, 5 anni meno di un dirigente.

L’aver previsto un intervento di riforma “in due tempi” faceva presagire che, nel corso del 2017, il governo avrebbe finalmente avviato una riflessione approfondita, basata sui più dettagliati studi a disposizione, per valutare gli effetti del continuo e omogeneo incremento dell’età pensionabile, sia dal punto di vista dell’equità – ovvero il trattamento di persone con diverse opportunità lavorative e condizioni di salute – che dell’efficienza – relativamente all’impatto del continuo e omogeneo aumento dell’età pensionabile sulla produttività complessiva del sistema economico e sulle stesse opportunità occupazionali dei più giovani.

La speranza era, dunque, che si sarebbe giunti a interventi che una volta per tutte, e fuori da contesti emergenziali, delineassero un quadro normativo maggiormente coerente con gli obiettivi appena richiamati e con la stessa logica di un sistema di assicurazione sociale come quello pensionistico, che dovrebbe fornire tutele differenziate contro rischi che per loro natura si distribuiscono in modo fortemente eterogeneo fra la popolazione. Il dibattito che si è succeduto nelle scorse settimane e le decisioni di policy a cui si è giunti – bloccare per un biennio per 15 categorie di lavoratori l’aumento di 5 mesi dell’età pensionabile (che rimarrà, dunque, ferma a 66 anni e 7 mesi, anziché crescere a 67 anni, come avviene invece per la generalità dei lavoratori) ed estendere ad altre 4 categorie l’accesso all’Ape sociale laddove si rispettino i requisiti relativi alla definizione della gravosità dell’occupazione – hanno rappresentato invece l’ennesima occasione persa per ragionare in modo approfondito su una questione con ricadute rilevanti, sia per gli individui che per il sistema economico italiano.

Sebbene si avesse il tempo per avviare una riflessione, trasparente e scientificamente fondata, sul complesso dei nodi ancora aperti – limitata flessibilità nel pensionamento, trasferimento sull’obbligo al lavoro di qualsiasi guadagno di aspettativa di vita media (quando la logica vorrebbe, peraltro, che i guadagni di aspettativa di vita venissero distribuiti fra vita attiva e fase di ritiro), disattenzione alle differenze di longevità –, si è scelta una soluzione di piccolo cabotaggio. Tale soluzione rischia addirittura di accentuare le iniquità fra lavoratori simili, il diritto a ritirarsi o meno sulla base di requisiti più vantaggiosi dipendendo da fattori abbastanza casuali.

Certamente, le questioni da affrontare non sono semplici. Al contrario, lo studio dei legami fra invecchiamento, aspettativa di vita, età pensionabile e funzionamento del sistema economico è un tema molto complesso, rispetto al quale non appare per nulla facile stabilire semplici ricette di policy. E tuttavia, un’evidenza empirica abbastanza consolidata inizia a emergere. Su questa base, si sarebbe dovuta avviare una seria riflessione su cosa condizioni le diverse opportunità dei lavoratori e quali siano le ricadute delle possibili linee di intervento sul sistema economico. Al contrario, ci si è limitati a stabilire esogenamente le risorse pubbliche che si potevano destinare alla definizione di regole più favorevoli e, in modo abbastanza discutibile, si è stabilito fra quali categorie di lavoratori distribuire le limitate risorse a disposizione, introducendo alcune eccezioni alla regola generale.

Dal punto di vista dell’equità, la letteratura epidemiologica è unanime nell’evidenziare quanto ampie siano le differenze nelle condizioni di salute e nei rischi di mortalità di individui di diverso status socioeconomico. Un’età pensionabile uguale per tutti – e, in prospettiva, nel sistema contributivo, un meccanismo di calcolo attuariale della pensione basato sulla sola aspettativa di vita media – comporta, di fatto, una chiara redistribuzione in senso regressivo della ricchezza pensionistica (il totale delle pensioni che si riceverà nella vita) da chi vive di meno, dunque i meno abbienti, a favore dei più abbienti, che vivono in media di più. Emerge anche il rischio che l’aumento forzoso della vita attiva per persone impegnate in lavori di diversa gravosità, oltre che lo stress associato ai rischi di disoccupazione in età anziana – dato che non tutti fronteggiano le stesse opportunità occupazionali da anziani – possano ulteriormente amplificare i differenziali sociali di salute e mortalità.

D’altro canto, se vari vincoli che agiscono dal lato sia dell’offerta che della domanda di lavoro non influenzassero le scelte e le possibilità di prosecuzione della carriera non si osserverebbero ampie differenze nei tassi di occupazione dei lavoratori anziani in base al loro titolo di studio. Dai dati Eurostat si nota, invece, che nel 2016 fra gli uomini di età 60-64 anni, il tasso di occupazione di chi ha al massimo un diploma di scuola media è in Italia pari al 33,8% ed è inferiore alla media Ue a 15 (36,8%), mentre fra i laureati il tasso di occupazione risulta pari al 79,3% (inferiore solo alla Svezia nell’Ue), a fronte di una media Ue a 15 del 63,9%.

Differenze così ampie – non imputabili unicamente alle diverse possibilità di accesso al pensionamento anticipato da parte dei lavoratori “precoci” – dovrebbero portare a riflettere a fondo sulle cause retrostanti e a interrogarsi su cosa aumenti indiscriminati e continui dell’età pensionabile possano implicare per il funzionamento del sistema economico, oltre che per il benessere individuale. In questo quadro, l’evidenza recente per l’Italia segnala come il cospicuo e omogeneo incremento dell’età pensionabile introdotto durante la recente fase recessiva abbia determinato una riduzione delle possibilità occupazionali dei più giovani e come l’aver impedito l’uscita dei lavoratori anziani più deboli abbia generato un effetto negativo sulla produttività.

Certamente, la materia è complessa. Se è chiaro che chi è più abbiente vive in media di più e, dunque, anche in uno schema apparentemente neutrale dal punto di vista distributivo come quello contributivo, riceverà di più, non è chiaro quale sia il fattore che causa la più elevata aspettativa di vita – migliori cure, condizioni di vita e di lavoro più salubri, minore stress, maggiore prevenzione – e, dunque, in base a quali caratteristiche individuali (o della storia lavorativa) andrebbero concessi trattamenti differenziati per quanto riguarda i requisiti per il pensionamento o il calcolo dei coefficienti di trasformazione nel sistema contributivo. Analogamente, modelli complessi sarebbero necessari per valutare sotto quali condizioni si massimizzerebbe il potenziale produttivo di un Paese, fermo restando che un incremento indiscriminato dei requisiti di pensionamento non costituisce, con ogni probabilità, una strategia di first best.

Resta, tuttavia, fermo il punto che una crescita uniforme e continua dell’età pensionabile appare subottimale sotto il profilo sia dell’efficienza che dell’equità. Se soluzioni di first best si dimostrano utopistiche, la politica dovrebbe, comunque, cercare di utilizzare al meglio le informazioni disponibili, definendo un quadro normativo coerente e stabile, anziché ricadendo in risposte di corto respiro, basate sugli equilibri politici da raggiungere prima dell’approvazione di ogni legge di stabilità. Le risposte oggi proposte potrebbero, peraltro, ulteriormente amplificare alcune differenze difficilmente giustificabili (per esempio, perché si può accedere all’Ape sociale se si sono trascorsi 6 degli ultimi 7 anni in attività gravose, anziché 5 negli ultimi 6?) e condizionare in negativo il futuro percorso di riforme che intendano rispondere in maniera più adeguata alle sfide oggi sul tappeto.

Michele Raitano è docente di Politica economica alla Sapienza Università di Roma