I tratti distintivi della dinamica di struttura non sono mai ravvisabili nei cambiamenti transitori e reversibili di breve-medio periodo, piuttosto nei cambiamenti che mutano la composizione del Pil. Diventa quindi ragionevole cercare di individuare le relazioni che esistono tra i movimenti cumulativi delle grandezze macroeconomiche e i mutamenti che hanno luogo nella loro struttura. Negli ultimi 15 anni, in realtà già a partire dal 1985, si osserva un movimento delle grandezze macroeconomiche che mutano il segno del reddito e delle sue principali componenti di consumo e investimento.

Non si tratta di un fenomeno transitorio, piuttosto di un processo di struttura che combina diversamente gli investimenti, la spesa in ricerca e sviluppo, i salari e le ore lavorate. Il progresso tecnico ha modificato in profondità il come e il che cosa si produce. In altri termini, il Pil con il passare degli anni è diventato sempre meno sensibile alla variazione degli investimenti fissi (in generale e delle imprese in particolare) rispetto agli investimenti negli asset intangibili e nella spesa in ricerca e sviluppo. Gli investimenti continuano a essere la base dell’accumulazione del sistema economico, della crescita del reddito e del livello di output atteso dagli stessi, ma la specializzazione produttiva e l’intensità tecnologica degli investimenti condizionano il livello di profitti e salari.

Nel corso di questi ultimi 25 anni il Pil è cresciuto in tutti Paesi, ma i differenziali di crescita mostrano che c’è una differenza nel come si realizza. Investire, alla fine, non è una condizione sufficiente per crescere e creare buon lavoro, salario e una maggiore produttività per unità di lavoro. La pubblicistica assegna agli investimenti il ruolo di motore della crescita, ma nel corso di questi anni qualcosa di profondo e forse unico è intervenuto. Così come nel tempo la dinamica di struttura modifica il peso relativo del settore primario, secondario e terziario, la stessa dinamica di struttura cambia il segno e il peso degli investimenti nel circuito monetario di produzione e della sottesa struttura economica.

Nel corso degli ultimi anni i principali Paesi industrializzati hanno contratto gli investimenti in rapporto al Pil, a cui è corrisposta una crescita del rapporto ricerca e sviluppo/Pil. Questo particolare trend di investimenti e spesa in ricerca e sviluppo è legato alla crescita del reddito e dei conseguenti consumi (legge di Engel). Più precisamente, la crescita del reddito e la diversificazione dei consumi hanno consolidato e ampliato il bisogno di beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico, alimentando la crescita della componente ad alta tecnologia nei consumi interni e nel commercio internazionale.

Sostanzialmente, nel corso di questi anni, è stata premiata l’intensità tecnologica degli investimenti, non l’investimento in quanto tale. I Paesi che hanno ridotto il rapporto investimenti/Pil e mantenuto costante o accresciuto il rapporto ricerca e sviluppo/Pil sono anche quelli che registrano i migliori tassi di crescita del Pil, dei salari e degli orari di lavoro più contenuti. Per dar conto del fenomeno degli investimenti, possiamo utilizzare i dati Ocse di alcuni Paesi. Il Giappone nel 1990 aveva un rapporto investimenti/Pil del 32%, che diventa 21,7% nel 2013; la Germania passa dal 23 del 1991 al 17,2% del 2013; l’Italia dal 22,2 al 17,3%.

E per quanto riguarda l’Ue? L’Unione manifesta la stessa tendenza, passando dal 20,3 al 17,7%, sapendo bene che in essa convivono Paesi molto diversi e con diverse specializzazioni produttive. Qualcuno potrebbe anche sostenere che la crisi del 2007 ha condizionato gli investimenti, accelerando solo un fenomeno ben consolidato. In qualche modo, il mercato si è incaricato di selezionare gli investimenti produttivi da quelli conservativi, così come di selezionare le imprese che hanno una buona intensità tecnologica dalle imprese che hanno una ridotta intensità tecnologica.

La spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al Pil registra un progressivo miglioramento in tutti i Paesi, per quelli di vecchia industrializzazione come per quelli di nuova industrializzazione. I Paesi indagati non hanno contratto in nessun modo questa particolare voce di spesa e ciò spiega il ruolo del progresso tecnico legato alla ricerca e sviluppo. La crescita di ricerca e sviluppo non compensa la contrazione degli investimenti, cioè non c’è sostituzione tra investimenti e spesa in ricerca e sviluppo.

Un fenomeno abbastanza difficile da spiegare, ma coerente con la differente natura economica di investimenti e ricerca: i primi industrializzano la ricerca possibile sulla base delle aspettative degli imprenditori di realizzare un profitto; la seconda qualifica gli investimenti, nel senso che permette di realizzare un vantaggio comparato e di mercato. Solo per dar conto del fenomeno trattato, si osservi che un Paese bistrattato come l’Italia non riduce la spesa in ricerca e sviluppo tra il 1990 e il 2012. Se proprio dobbiamo sottolineare un fenomeno, è la relazione tra investimenti e ricerca e sviluppo: la crescita degli investimenti dell’Italia, intervenuta tra il 1999 e il 2006, coincide con una riduzione del rapporto ricerca e sviluppo/Pil. In qualche misura, la crescita degli investimenti riduce la componente di ricerca e sviluppo.

Tutti gli altri Paesi registrano un rafforzamento di ricerca e sviluppo in rapporto al Pil: la Germania passa dal 2,6 del 1990 al 3% del 2012, il Giappone dal 2,9 al 3,4%, gli Stati Uniti dal 2,5 al 2,8%. Un caso particolare è rappresentato dalla Cina. La necessità di ri-specializzare il proprio tessuto economico ha fatto crescere in quel paese la spesa in ricerca e sviluppo dallo 0,7 del 1991 al 2% del 2012. Questa particolare caratteristica degli investimenti, della ricerca e dello sviluppo condiziona e qualifica la domanda effettiva e gli ammortamenti degli investimenti. Una delle caratteristiche del capitale e della produzione industriale è quella di allargare i propri mercati, che porta con sé una continua ricomposizione della domanda effettiva internazionale e una continua ricomposizione della domanda effettiva nazionale.

L’effetto è quello di una continua ricomposizione della domanda nazionale e internazionale verso attività knowledge oriented, cioè un consolidamento dell’intensità tecnologica degli investimenti. In sintesi, la domanda estera e la domanda interna influenzano il sistema produttivo nella predisposizione di piani d’investimento ad alta intensità tecnologica al fine di anticipare la domanda. Le implicazioni sociali sono enormi. Il primo fenomeno da considerare è la cosiddetta tendenza storica degli orari di lavoro di ridursi nel tempo. Questa tendenza è indiscutibile, ma la profondità della riduzione dell’orario di lavoro è direttamente proporzionale all’intensità tecnologica degli investimenti e, più in generale, alla crescita della spesa in ricerca e sviluppo.

Il progresso tecnico, sotteso alla ricerca e allo sviluppo, ha permesso di continuare e consolidare questo processo storico. Semmai si osserva che la riduzione dell’orario di lavoro è più accentuata dove è più alta la spesa in ricerca e sviluppo. Non è un caso che la riduzione dell’orario annuo per lavoratore dell’Italia tra il 1991 e il 2012 sia più bassa di quella fatta registrare da Francia, Germania e Giappone, rispettivamente meno 5,94, meno 9,90, meno 10,45 e meno 13,35%. Un fenomeno che diventa ancora più eclatante se consideriamo il punto di partenza dei singoli Paesi. Gli orari di lavoro di Germania, Francia e Italia non sono omogenei. Nel 1991 si lavorava 1.860 ore in Italia, 1.665 in Francia e 1.552 in Germania. Alla fine del 2012 in Francia si lavora 1.479 ore, in Germania 1.397 e in Italia 1.752.

Come si vede, la capacità di produrre beni e servizi a maggiore contenuto tecnologico, e la conseguente spesa in ricerca e sviluppo, sono un ottimo strumento per consolidare la storica tendenza del capitale a ridurre gli orari di lavoro, cioè aumentare la produttività per unità di tempo.