Con la definitiva entrata in vigore della normativa europea in materia di orario di lavoro finalmente anche il ministro Lorenzin si è accorto che nel paese di zerovirgola – la definizione è del presidente del Censis, Giuseppe De Rita – ci sono pochi medici e infermieri a far funzionare un sistema sanitario che invece necessita di migliaia di operatori in più agli attuali. L’Italia è affetta da staticità da almeno quindici anni, secondo il sociologo, e la ripresa non ci sarà fino a che non ci liberiamo da questa malattia. È un problema di fiducia.

La Cgil tre anni fa lanciò il suo Piano del lavoro, un progetto di investimenti pubblici per rilanciare l’economia e far uscire l’Italia dalla crisi. In quel piano il sistema sanitario era considerato volano per lo sviluppo e fonte di nuovi qualificati posti di lavoro. Era il 2012, alla vigilia di elezioni politiche nazionali e di quelle regionali dopo l’uscita di scena di Formigoni finito nelle inchieste sulla sanità lombarda.

Negli ospedali italiani si lavora fino a 60 ore settimanali, ben oltre il limite delle 48 fissate dall’Europa. E qui il maggiore orario di lavoro non è indicatore di produttività, ma di maggiore rischio per i pazienti sottoposti alle cure di medici e infermieri. E il rischio produce anche più costi per il sistema. Così si pensa a un emendamento alla Legge di stabilità per assumere circa seimila nuovi medici e infermieri, spostando risorse dalla spesa per la medicina difensiva.

Bastano? Sembra proprio di no. Nella sola Lombardia, forse. È l’ora di una grande vertenza occupazione per la salute. Il rispetto del giusto orario e del giusto riposo non può tradursi in riduzione dei servizi ai cittadini o, peggio, nel taglio ulteriore dei diritti di chi lavora, magari in appalto, per sostituire le carenze del pubblico.

* segretario generale Fp Cgil Lombardia