Tempi di attesa per visite specialistiche, indagini strumentali e operazioni chirurgiche per assicurare salute si allungano anziché abbreviarsi. È questo l’amarissimo risultato di un monitoraggio condotto da Federconsumatori in collaborazione con l’Area welfare e diritti della Cgil. Il secondo dato davvero sconcertante, è che la fatica maggiore compiuta dai ricercatori è stata proprio nel reperimento dei dati.

La caccia al tesoro

21 Regioni, 21 sistemi di rilevazione fino alla possibilità di non fornirli, i dati. Basti pensare che addirittura l’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali ha voluto sperimentare un monitoraggio sulle prestazioni sanitarie ed è riuscita a fotografare solo 13 Regioni. È per questo che “la complessità della ricerca – si legge nell’indagine –, i limiti di accesso ai dati e le differenze sostanziali dei parametri di rilevamento tra un’azienda e l’altra, ha reso il monitoraggio libero dalla pretesa di aderire rigidamente al rigore dell’analisi statistica. Tuttavia, ogni dato reperito sui tempi di attesa è comprovabile dalla documentazione cartacea e digitale raccolta che ha riguardato 21 Regioni, 41 aziende sanitarie locali e 13 aziende ospedaliere, 6 portali/cruscotti regionali di Basilicata, Emilia Romagna, Lazio, Toscana, Umbria e Veneto”. Nella malaugurata ipotesi che entrasse in vigore l’autonomia differenziata cosa succederà? Avviso ai naviganti: essere informati è in diritto e solo l’accesso alle informazioni consente di individuare i problemi e cercare di risolverli. 

Uno spaccato significativo

Sebbene, lo ribadiamo, l’indagine non abbia velleità statistiche, il risultato è assai significativo. Sotto l'obiettivo sono finite 1 o 2 aziende locali ed una azienda ospedaliera per Regione alla data di aprile 2023, rilevando i tempi di attesa di: 14/14 visite specialistiche ambulatoriali, 14/55 prestazioni diagnostiche ambulatoriali, 17/17 interventi in regime di ricovero per un totale di 45 prestazioni pari al 52% sul totale di 86 oggetto di monitoraggio del Piano nazionale di governo delle liste di attesa 2019-2021. L’85% delle prestazioni sono riferite al mese di aprile 2023, il restante 15% è riferito ai mesi compresi tra marzo e luglio 2023.

Tempi lunghi, anzi lunghissimi

Nessuna velleità statistica, d’accordo, ma se una prestazione deve essere erogata entro 120 giorni e però non si riesce a prenotare prima di 600 il problema esiste. Si legge nel rapporto: “Complessivamente il monitoraggio fotografa tempi di attesa con numeri inaccettabili verso cui le aziende, le Regioni ed il governo hanno il compito di approntare soluzioni tempestive ed appropriate per dare soluzioni strutturali e urgenti al fenomeno che costringe molte persone a subire ritardi, all’acquisto di prestazioni dal privato o a rinunce”.

Visite specialistiche, che rarità

Per visite specialistiche e indagini strumentali la legge prevede 4 priorità per essere effettuate: entro 72 ore dalla prescrizione, entro 10 giorni, entro 30, entro 120 giorni. Se il medico di base richiede una visita endocrinologica da effettuarsi entro 10 giorni e a Messina il primo posto disponibile è dopo 612 come si fa a garantire salute? Se si ha bisogno di una visita oculistica magari per cambiare gli occhiali o per verificare la progressività della cataratta, quindi programmabile entro 120 giorni, e l’ospedale di Legnano in Lombardia però la prima possibilità la individua dopo 677 giorni, come si fa a garantire il diritto alla salute? E potremmo proseguire.

Le radiografie servono

Se poi dalle visite specialistiche passiamo alle indagini strumentali le cose non vanno meglio. Eppure, per definire una diagnosi, radiografie e risonanze servono. Dopo aver aspettato un anno e mezzo per una visita ortopedica e il medico prescrive una risonanza magnetica della colonna da farsi entro 120 giorni, all’Ospedale di Magenta in Lombardia, prima di 546 giorni non è possibile. Mentre in Campania, se il cardiologo ritiene di dover prescrivere ad un proprio paziente un elettrocardiogramma da farsi entro 30 giorni, deve sapere che la Asl Napoli 1 prima di 400 giorni non ha posto. E ci vogliono 645 giorni per una colonscopia totale in classe P in Liguria nell’ASL 4 di Chiavari, 600 giorni nella stessa classe in Friuli nel P.O. di Palmanova, 546 giorni sempre in classe P nell’Asl di Messina nel Presidio Ospedaliero di Milazzo o il 60% di performance nell’AOU Careggi in Toscana; o 482 giorni per una mammografia bilaterale in Friuli nell’Ospedale di Udine, 365 giorni in classe P nell’azienda Napoli 1 Centro o nella PA di Bolzano.

Ricoveri programmati

Il taglio dei posti letto che nel corso degli ultimi decenni ha chiuso ospedali e falcidiato la possibilità di cura, ha effetti gravi non solo sulla permanenza spesso in barella nei pronto soccorso del Paese, perché difficile è la possibilità di ricovero in reparti stracolmi, ma anche sui tempi di attesa dei ricoveri programmati. Secondo lo studio la maglia nera spetta a due ospedali di Roma: il Sandro Pertini, dove per una protesi d’anca si può attendere anche oltre 700 giorni (ce ne vogliono 128 all’Ospedale Dei Colli in Campania, 180 all’Ospedale Garda, 112 giorni in classe B al Presidio Asti e 317 in classe C), e il San Filippo Neri.

C’è chi fa meglio

Per fortuna, ovviamente, non per tutto e ovunque è così. Certo è, però, che le Regioni fanno una gran fatica a rispettare i tempi definiti dalla legge per erogare prestazioni che servono per prevenire patologie o l’aggravarsi di malattie presenti. O anche per curare e riabilitare così come prevede la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Sempre secondo lo studio di Federconsumatori, nell’aprile del 2023 l’Emilia Romagna è riuscita a rispettare le prescrizioni nel 90% dei casi, la Puglia nell’ 83%, il Lazio nel 76,6 e in Abruzzo nel 61 (queste le Regioni che forniscono dati aggregati percentualmente).

Perché?

Le ragioni di tanto aspettare sono note: tagli, tagli e ancora tagli. Di risorse e di uomini e donne senza i quali nessuna prestazione è possibile. Tagli del passato e del presente perché è bene ricordare che, nonostante anche in questo caso le affermazioni di Meloni, la realtà dice che rispetto al 2023 il rapporto tra Pil e Fondo sanitario nazionale nel 2024 è sceso attestandosi al 6,3%, e continuerà a scendere fino ad arrivare a 5,9% nel 2025. Si legge nel monitoraggio: “Il governo sembra non avere nessuna strategia sul personale se non quella di farlo lavorare di più con prestazioni aggiuntive, mentre si innalzano invece i tetti alla spesa farmaceutica, così come i tetti di spesa per acquisti di prestazioni da privati a cui saranno destinati 1,2 miliardi di euro in più nel triennio. Un ulteriore trasferimento alla sanità privata verso cui si dirottano sempre più risorse”.

Che fare?

Nette e precise le proposte e le richieste indicate nel monitoraggio di Federconsumatori e Cgil, a cominciare da un forte finanziamento del Ssn in termini reali e in percentuale sul Pil con almeno 7 miliardi in più ogni anno per i prossimi 8. E poi è necessario togliere il tetto alle spese per il personale e avviare un piano straordinario di assunzioni. È necessario rilanciare la rete ospedaliera e, contemporaneamente, dare reale e completa attuazione alla riforma dell’assistenza territoriale. Magari si potrebbe – meglio si dovrebbe – reintegrare le case e gli ospedali di comunità previsti dal Pnrr e tagliati dal duo Meloni-Fitto. Insomma, occorre ridare centralità al Servizio sanitario pubblico e universale e impedirne smantellamento e privatizzazione.