Il maxi-emendamento del governo alla Legge di Bilancio 2026 segna un ulteriore e pesantissimo irrigidimento del sistema previdenziale italiano. Non si tratta di un semplice intervento tecnico, ma di una scelta politica chiara: spostare sempre più in avanti l’uscita dal lavoro, superando persino la rigidità introdotta dalla legge Monti-Fornero.

L’Osservatorio Previdenza Cgil ha analizzato in dettaglio gli effetti combinati delle misure contenute nel maxi-emendamento, con particolare riferimento all’articolo 33, incrociandole con l’aumento dei requisiti pensionistici legato all’attesa di vita, che il governo ha scelto di non bloccare.

L’aumento dei requisiti legato all’attesa di vita

“La Legge di bilancio conferma il meccanismo automatico di adeguamento dei requisiti pensionistici alla speranza di vita. – spiega Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil nazionale – Dopo una sterilizzazione parziale nel 2027 (+1 mese), dal 2028 il sistema torna pienamente operativo”.

Secondo le stime della Ragioneria Generale dello Stato, “questo comporta un aumento progressivo dei requisiti contributivi per la pensione anticipata che, rispetto al 2026, arriva a +11 mesi dal 2037”, sottolinea Cigna. Già così, la pensione anticipata diventa un traguardo sempre più lontano, richiedendo oltre 43 anni di contribuzione.

Il colpo più duro: il riscatto della laurea

L’intervento più grave riguarda però la penalizzazione del riscatto degli anni di studio. “A partire dal 2031, una quota crescente dei periodi di laurea riscattati non sarà più utile ai fini del diritto alla pensione anticipata, pur continuando a essere integralmente pagata”.

La riduzione è progressiva: 6 mesi nel 2031, 12 mesi nel 2032, 18 mesi nel 2033, fino ad arrivare a 30 mesi esclusi dal 2035. Questo significa che quei mesi dovranno essere recuperati con ulteriore lavoro effettivo.

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Si tratta di una misura retroattiva, continua Cigna, “con profili di incostituzionalità, che rompe in modo evidente il principio di affidamento: lo Stato cambia le regole a partita già giocata, penalizzando soprattutto i giovani, chi ha carriere medio-alte con ingresso tardivo nel mercato del lavoro e chi ha investito risorse significative nel riscatto della laurea”.

Fino a 46 anni e 9 mesi di permanenza forzata nel lavoro

Incrociando tutti questi elementi – aumento dei requisiti per attesa di vita, allungamento delle finestre e svalutazione del riscatto della laurea – l’Osservatorio Previdenza Cgil ha stimato lo slittamento reale dell’uscita dal lavoro. Il risultato è impressionante: dal 2037, una lavoratrice o un lavoratore che ha riscattato il periodo di studi potrà arrivare a 46 anni e 9 mesi di permanenza forzata nel lavoro o nel sistema previdenziale, a fronte dei 42 anni e 10 mesi previsti nel 2026. Quasi quattro anni in più.

“Altro che flessibilità in uscita – conclude Cigna – si costruisce un sistema sempre più rigido, selettivo e punitivo, che scarica l’equilibrio dei conti pubblici interamente sulle spalle di chi lavora.

Ghiglione (Cgil): “Una scelta politica ben precisa”

“Queste misure non sono neutre né inevitabili. Sono il frutto di una scelta politica precisa, che rinuncia a qualsiasi riforma equa e solidale del sistema previdenziale e preferisce intervenire con penalizzazioni progressive, rinvii e tagli mascherati”, così la segretaria confederale della Cgil Lara Ghiglione.

“Continueremo a contrastare questo impianto, – sottolinea – perché non è accettabile che, dopo una vita di lavoro, il diritto alla pensione venga continuamente spostato in avanti, rendendolo sempre più difficile da raggiungere, soprattutto per giovani, donne e lavoratori con carriere discontinue”.

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