La nuova infornata di statistiche sull’occupazione è stata come sempre accompagnata dalle parole trionfalistiche del governo sulle sue politiche, anche questa volta condite da una grande dose di propaganda. Partiamo dai dati, che presentano certamente elementi positivi rispetto all’aumento dell’occupazione e al calo della disoccupazione. Ma solo in termini numerici, cioè con un mero calcolo aritmetico, senza analizzare il come e il cosa.

21.000+26.000-33.000 = 14.000

Rispetto a novembre scorso, dicembre ha registrato un incremento di 14 mila posti di lavoro. Da cosa deriva questo segno più? Dal calo dei contratti a tempo indeterminato (meno 33 mila per la precisione), dall’aumento dei contratti a termine, quindi precari (più 21 mila) e da quello degli autonomi (più 26 mila).

“Entrando nel dettaglio, quindi, si confermano gli elementi di preoccupazione per il sindacato – spiega Rossella Marinucci, Cgil nazionale -. A prescindere dalla tendenza positiva, che tipo di occupazione si sta creando? Meno lavoro permanente e più lavoro precario. Senza contare, e questo lo avevamo già sottolineato, che l’aumento in sé è fortemente connesso al calo demografico e al fatto che i meno giovani permangono di più nel mondo del lavoro”.

Dov’è la qualità?

Quindi aumenta il lavoro precario e povero e diminuisce quello stabile e dignitoso. I bollettini mensili dell’Istat, infatti, non forniscono informazioni sulla qualità dei posti di lavoro che si creano e si perdono. Quanto durano questi contratti? Quante ore di lavoro prevedono? Quale il salario medio? Quanti contratti a termine vengono trasformati in tempo indeterminato?

Lavoro povero, salario povero

“Il punto è proprio questo – prosegue Marinucci -: la qualità del lavoro. A noi non interessa quanti contratti di un giorno vengono stipulati. Un lavoro che dura uno, due o cinque giorni al mese può essere considerato davvero un posto di lavoro? E il salario relativo può esser considerato un reddito adeguato? Dai bollettini mensili dell’Istat non abbiamo dati sugli orari, sulle trasformazioni, su quanti contratti a termine diventano indeterminati, sulla qualità che è la vera analisi che bisognerebbe iniziare a fare”.

Ma quali divanisti?

Poi c’è il grande tema degli inattivi, che cresce per le persone over 35 e cala per i 15-34enni. Dietro a questo mondo ci sono motivazioni diverse: lo scoraggiamento, l’impossibilità di accettare offerte di lavoro, profonde disuguaglianze.

Non ci sono i divanisti pigri che non si attivano, come sostiene il nostro governo – conclude la dirigente sindacale -. Ci sono ragioni molto serie per cui si resta fuori dal mondo del lavoro. Certamente registriamo vivacità e movimento, ma i dati non possono essere letti in maniera troppo semplicistica, come viene fatto mese per mese. Non si supera la precarietà, il lavoro povero e il problema a cui il reddito di cittadinanza dava una risposta semplicemente sbandierando questi numeri. Né l’aumento deriva dal fatto, come qualcuno sostiene, che si sono dovute attivare persone che prima erano beneficiarie della misura”.