Nessuno può dire oggi con certezza quale influenza avrà, nel medio-lungo periodo, la pandemia in corso sugli assetti socio-economici-politici del nostro Paese e del mondo intero. Ma certo degli effetti ci saranno ed è molto probabile che in gran parte si tratterà di effetti di amplificazione e accelerazione di processi già in atto. Il primo, già evidente, è l’amplificazione della crisi che era in atto ormai da diversi mesi prima del cosiddetto lockdown. Non va scordato che già sul finale dello scorso anno molti indicatori economici segnalavano gravi problemi. Basti citare la stima preliminare di Istat relativa al quarto trimestre 2019 era già in negativo su base congiunturale (-0,3), così da far pensare che il -4,7 ora stimato per il primo trimestre 2020 non sia proprio tutto imputabile alle chiusure disposte nel mese di marzo.

Il fatto è che l’attuale emergenza sanitaria si colloca nel vivo di una fase, già di per sé molto complessa, di ridefinizione degli equilibri e dei rapporti di forza tra le diverse aree del mondo e anche all’interno di ogni singolo Paese. Una fase di transizione, nella quale il contemporaneo proporsi di tre grandi snodi della storia umana, quello ambientale, quello demografico e quello tecnologico, costringono a ridisegnare molti aspetti della vita e della condizione delle persone, ad immaginare soluzioni che possono essere anche molto diverse tra loro in base ai valori che si assumono o meno come prioritari.

Anche per questo il come si uscirà dalla pandemia è molto importante: perché conterrà in sé alcune risposte ai tanti interrogativi che le transizioni in atto da tempo pongono e potrà così indirizzare in modo decisivo l’evoluzione degli anni a venire. Uno dei terreni più importanti sui quali si misurerà il cambiamento è come sempre quello dell’organizzazione del lavoro, architrave di tutta l’organizzazione sociale, nonché – secondo l’indimenticata lezione di Bruno Trentin – cuore fondamentale dell’azione del sindacato.

Qui ritroviamo un grumo di temi interconnessi tra loro che sono già oggetto di un cambiamento di fatto e che ancora di più lo saranno nei prossimi mesi. Mettere al centro infatti, come è necessario fare in questa fase, il tema della salvaguardia e della sicurezza dei lavoratori, non può risolversi nell’utilizzo di alcuni dispositivi di protezione individuale. Rende indispensabili modifiche organizzative molto più profonde e pervasive, che vanno dalla differenziazione degli orari all’utilizzo delle tecnologie più avanzate anche per il lavoro in remoto, fino al ripensamento del rapporto, lungo le filiere produttive, tra le attività principali e quelle di supporto o ausiliarie, spesso regolate attraverso il sistema degli appalti.

È quindi più che mai urgente sull’insieme di questi temi un salto di qualità dell’elaborazione e dell’azione del sindacato, che gli consenta di stare nel vivo dei processi di cambiamento in corso con un proprio autonomo punto di vista, non solo rincorrendo, per avvallarle o per ostacolarle, le soluzioni proposte dalle imprese. Il cosiddetto “smart working” o, nell’accezione nostrana, “lavoro agile” è una delle questioni sulle quali un confronto di fatto è già aperto, nei luoghi di lavoro forse ancor più che nella discussione pubblica. C’è molta confusione, però, terminologica e non solo.

In questi giorni molti stanno svolgendo il loro lavoro da casa, in remoto, addirittura 8 milioni di persone secondo le stime dell’apposito Osservatorio del Politecnico di Milano, ma non si tratta nella maggior parte dei casi di un vero smart working, se non altro perché necessariamente avviene nel chiuso della mura domestiche, invece che – come dice la legge - “in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa” nonché, soprattutto “senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro”, anche perché finalizzato ad “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” (art.18, c.1 della legge 22 maggio 2017 , n.81).

In questo lo smart working si distingue anche dal telelavoro, che viene invece prestato in una specifica posizione esterna alla sede aziendale attraverso strumenti tecnologici messi appositamente a disposizione dall’impresa e secondo orari predefiniti. L’utilizzo dello smart working corrisponde quindi ad un concetto dl lavoro che guarda molto più agli obiettivi, ai progetti e ai risultati piuttosto che non al rispetto formale delle procedure e degli adempimenti. Si tratta sempre di un lavoro subordinato, ma con un livello di autonomia e di flessibilità nello svolgimento molto distante dai vecchi rigidi modelli organizzativi tipici del fordismo-taylorismo.

Per questo contrattare la sua applicazione è meno banale di quanto superficialmente può apparire, soprattutto quando si svolge nell’ambito di contesti organizzativi complessi, perché non si può limitare a prevedere una nuova modalità lavorativa all’interno di processi che rimangono sostanzialmente uguali a prima, ma trascina con sé quasi necessariamente la rimessa in discussione di ruoli, gerarchie, professionalità, sviluppo delle competenze, percorsi formativi, cioè di tutte quelle materie che compongono il cuore dell’organizzazione aziendale.

Occorre tra le altre cose anche evitare il rischio di un eccessiva marginalizzazione dello smart worker, di un suo ruolo che, anche per effetto dell’assenza fisica, può diventare via via sempre più periferico e irrilevante nell’organizzazione aziendale. Per non parlare della possibilità che diventi una nuova modalità di confinamento e quindi di discriminazione della forza lavoro femminile. Proprio per questo occorrerà molta prudenza nel prevedere periodi prolungati di lavoro reso totalmente in forma individuale e a distanza.

Smart working non significa infatti necessariamente rinunciare ad altre modalità, come ad esempio il lavoro di gruppo e neppure ad occasioni anche informali di scambio di informazioni, che come noto rappresentano un aspetto determinante dell’arricchimento professionale. Anzi, una costante cura nel garantire un’efficace circolazione delle informazioni appare una delle misure più importanti da mettere in campo nel momento in cui si decide di adottare questa modalità lavorativa.

Si tratta comunque di una straordinaria opportunità per il movimento sindacale di stare nel vivo dei processi di cambiamento e di codificare anche nuove forme di partecipazione attiva dei lavoratori alle scelte imprenditoriali. Perché questo sia possibile è necessario però che non ci si limiti a contrattare solo gli aspetti più “difensivi” dello smart working, quali ad esempio il rispetto di un’effettiva volontarietà da parte del lavoratore oppure la pur necessaria definizione delle modalità attraverso le quali viene comunque garantito, tramite la disconnessione, un tempo “libero” dal lavoro.

C’è quindi molta materia sulla quale potrà e forse dovrà esercitarsi sia la contrattazione nazionale sia quella aziendale. Ma anche la contrattazione sociale e territoriale possono trovare qui uno spazio importante, se non altro per affrontare almeno due delle questioni che rappresentano in qualche modo delle pre-condizioni allo sviluppo in generale delle forme di lavoro rese in remoto: l’efficienza dei sistemi di connessione e la diffusione delle competenze digitali. Due ambiti nei quali l’Italia è in grave ritardo, anche nel confronto con gli altri Paesi europei, come attestano i dati recentemente diffusi da Eurostat e riferiti all’anno 2019: il nostro Paese risulta infatti 18esimo sui 28 Paesi dell’Unione Europea come percentuale di famiglie che dispongono di una connessione a banda larga e addirittura 26esimo come percentuale di individui che hanno competenze digitali almeno di base. È evidente come questi siano terreni sui quali sarebbe indispensabile un grande investimento di risorse, pubbliche e private, anche ma non solo per incentivare modalità lavorative come lo smart working.

Guiliano Guietti è presidente dell'Ires Cgil Emilia-Romagna