Deliveroo e Uber Eats dovranno versare all’Inps milioni di euro di contributi per 28 mila rider in tutta Italia per il lavoro svolto dal 2016 al 2020. Lo ha deciso il tribunale di Milano con la sentenza n. 3237/2023 del 19 ottobre scorso, una nuova tappa della maxi indagine avviata a livello nazionale dalla procura, che ha messo sotto la lente la posizione di oltre 60 mila fattorini delle quattro principali piattaforme di food delivery, dopo diversi incidenti stradali durante il lockdown. La sentenza per gli altrui due colossi, Just Eat e Glovo, è attesa nei prossimi giorni.

Al centro del procedimento che ha portato a quest’ultima decisione, i verbali notificati dall’Ispettorato del lavoro e impugnati dalle società, nei quali era stato chiesto di regolarizzare la posizione degli addetti delle consegne a domicilio e quindi di pagare i contributi. Il punto di partenza è stato il riconoscimento da parte del giudice della natura del lavoro prestato: nel periodo 2016-20 per Deliveroo, 2020-21 per Uber.

“L’ordinanza di febbraio 2021 ha affermato che i rider non sono lavoratori autonomi ma perlomeno collaboratori etero organizzati, quindi con le tutele della subordinazione – spiega Francesco Melis, funzionario nazionale di Nidil Cgil -. E ha obbligato le multinazionali al pagamento dei contributi, oltre a migliaia di euro di multa per la violazione di norme sulla salute e sulla sicurezza”.

Per il giudice, ai rider che hanno lavorato per Deliveroo e Uber va applicata la disciplina del lavoro subordinato, con conseguente obbligazione per contributi, interessi e sanzioni nei rapporti con l'Inps e per premi nei rapporti con l'Inail, per l'orario effettivamente svolto dai collaboratori.

“Questo è un elemento importantissimo – prosegue Melis -: il tribunale stabilisce che il periodo di lavoro scatta dal momento in cui il ciclofattorino effettua il login alla piattaforma e si protrae fino al logout, per ogni singolo giorno lavorato e con versamenti da farsi nella gestione dipendenti dell’Inps. In pratica è stato riconosciuto che si tratta di lavoro non solo ogni consegna effettuata, ma anche il tempo di attesa che è insito in questa attività”.

La sentenza segna un altro passo in avanti nel riconoscimento dei diritti e delle tutele dei rider, e adesso alle multinazionali digitali non resta che pagare.