A proposito di salario minimo, vorrei sbloccare un ricordo a uso di molti immemori. Ad esempio, del segretario generale della Cisl Luigi Sbarra, che improvvidamente parla di una Cgil che sarebbe stata folgorata sulla via del Nazareno. O del presidente del Cnel Renato Brunetta, che - nei giorni in cui il Cnel è stato al centro dell’attenzione per il controverso parere sulla possibile introduzione nel nostro paese del salario minimo - ha spesso parlato di un cambio di posizione della Cgil al riguardo.

Dunque, il ricordo è questo. Nel maggio del 2015 a Parigi, presso la Maison de la Mutualité, si svolge il congresso della Ces, la Confederazione europea dei sindacati. Nel corso della discussione sui documenti congressuali, in particolare sui temi delle politiche contrattuali, la Cgil decide di presentare una proposta di integrazione al piano d’azione della Ces chiedendo al sindacato europeo di avviare un’iniziativa coordinata per l’istituzione di “uno strumento salariale minimo”, almeno a livello dell'area dell'euro.

Le ragioni di questa scelta? Sostanzialmente due. La prima: in quel momento nella Ue il rapporto tra il salario minimo del Paese con le retribuzioni più alte e quello del Paese con le retribuzioni più basse, ossia tra Lussemburgo e Romania, era di quasi dieci a uno. All’incirca 2.200 euro contro poco più di 250 euro mensili. Per avviare il superamento di questa vera e propria voragine all’interno dello spazio economico comune, l’introduzione di un meccanismo di convergenza salariale coordinata a livello europeo sembrava alla Cgil la strada giusta da proporre alle autorità politiche ed economiche dell’Unione europea.

La seconda ragione: in molti Paesi europei, compresa l’Italia, le riforme del lavoro e gli interventi legislativi sulla contrattazione collettiva avevano prodotto, tra gli altri effetti, la sempre più frequente derogabilità dai contratti nazionali e la creazione di un esercito di lavoratori precari e scarsamente retribuiti. Anche per questa situazione, definire una soglia salariale minima sembrava una scelta saggia e favorevole al mondo del lavoro.

Ecco, dal 2015 quell’orientamento della Cgil si è via via irrobustito e ha trovato ulteriori ragioni per diventare elemento della linea politica e della pratica rivendicativa dell’organizzazione, anche nel contesto nazionale. Quindi, non ci sono improvvise folgorazioni né strumentali cambi di linea. C’è un sindacato, la Cgil, che mantiene la coerenza delle proprie posizioni quale che sia la composizione del governo in carica. E che - Sbarra e Brunetta dovrebbero tenerlo a mente, insieme alla premier e ai ministri del governo - merita il rispetto che si deve alla più grande organizzazione sindacale del Paese.

Fausto Durante è segretario generale della Cgil Sardegna