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Chi chiede uno scudo penale generalizzato per le imprese o è in mala fede oppure non sa leggere le disposizioni dei protocolli sottoscritti con le parti sociali. Per il Patronato della Cgil, è importante assicurare le tutele individuali ai lavoratori e alle lavoratrici contagiati da Covid-19 rispettando la normativa sulla prevenzione e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il principio ispiratore delle norme, contenute nell’articolo 2087 del codice civile, nel Testo Unico 1124/65 e nei Decreti legislativi 38/2000 e 81/2008, è che il datore di lavoro è responsabile e garante della salute e della sicurezza dei lavoratori e che, pertanto, è tenuto ad assicurare la loro integrità psicofisica adottando ogni misura necessaria allo scopo.
Pur comprendendo la drammatica situazione economica causata dalla pandemia da Coronavirus, non si capisce perché nell’attuale emergenza sanitaria si voglia rimuovere ogni possibile responsabilità in capo alle aziende, consentendo loro di non rispondere di eventuali inadempienze che, proprio in ragione dell’altissimo rischio di contagio nei luoghi di lavoro, possono aggravare la diffusione del virus, mettendo a repentaglio non soltanto la salute di quei lavoratori, che non possono lavorare in smart working, ma anche delle loro famiglie. Chiedere, come fanno le associazioni datoriali, che i casi di contagio da Coronavirus in occasione di lavoro siano da considerare come malattia comune e non infortunio, significa, di fatto, che chi ha contratto il virus debba essere trattato alla stregua di chi ha una semplice influenza, senza la copertura assicurativa antinfortunistica Inail, escludendo ogni possibile aggravamento, che pure in questi casi, è quanto di probabile possa accadere.
Richiamare le difficoltà di dimostrare l’origine professionale dei casi di coronavirus non è sufficiente a giustificare la richiesta di uno scudo penale generalizzato. Vorrei ricordare che il nostro Paese ha bandito la commercializzazione dell’Amianto nel 1992, dopo la chiusura per fallimento dello Stabilimento Eternit di Monferrato (1986), a cui sono seguiti numerosi processi, alcuni dei quali ancora in corso. A oltre trent’anni di distanza, nessuno mette più in dubbio l’origine professionale del mesotelioma pleurico e, nonostante i numerosi sforzi, ancor oggi dobbiamo aggiornare costantemente la lista dei decessi per amianto: c’è una ricca legislazione al riguardo che assicura le tutele Inail non soltanto per i lavoratori ex esposti, ma anche per chi è venuto a contatto con l’amianto per motivi ambientali o familiari.
Se lo spauracchio che agitano le aziende è quello di eventuali processi per contagi da coronavirus, mi sembra che le attuali disposizioni emergenziali delimitino bene il perimetro di azione: l’articolo 42 del decreto “Cura Italia” stabilisce che i casi di contagio in occasione di lavoro non influiranno in alcun modo sull’andamento dei premi assicurativi, in carico alle aziende; mentre, la circolare Inail, n. 13 del 3 aprile, prevede la presunzione semplice di origine professionale (procedura che dà per scontato il nesso causale del contagio) è indirizzata soprattutto al personale sanitario (medici e infermieri), che sta pagando un tributo altissimo, considerata l’alta probabilità di contrarre il virus. Per tutti gli altri casi, specifica l’Inail, si segue “l’ordinaria procedura privilegiando essenzialmente i seguenti elementi: epidemiologico, clinico, anamnestico e circostanziale”.
Queste disposizioni, tuttavia, non sollevano i datori di lavoro dal compito di garantire ai lavoratori i presidi di sicurezza (DPI e quant’altro), indispensabili per ridurre i rischi di contagio e, quindi, laddove non venissero assicurati, di individuare le responsabilità di tale inadempienza, che restano in capo all’azienda, nel rispetto della normativa antinfortunistica vigente e dei Protocolli sottoscritti dalle Parti sociali. Del resto, è lungo questo solco che si sta muovendo anche la magistratura (vedi il caso del Pio Albergo Trivulzio di Milano, e non solo). Per questa ragione, i moltissimi imprenditori onesti, che hanno a cuore la salute dei propri dipendenti, non hanno da temere nulla da queste disposizioni e non trarrebbero alcun beneficio da uno “scudo penale” generalizzato, che avvantaggerebbe soltanto chi, ancor prima della pandemia, considerava e considera le norme sulla prevenzione e sicurezza nei posti di lavoro, come un costo da comprimere e non un investimento.
Silvino Candeloro fa parte del collegio di presidenza Inca