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“Lo stabilimento Acc Wanbao di Mel è ancora la fabbrica dell’800. La ghisa, l’olio, la fatica, le catene di montaggio. Secondo me la politica tentenna sul suo rilancio per un vizio di fondo, quello di pensare che non sia proiettata nel futuro, non sia moderna, si possa accantonare. Ma è la manifattura che tiene e ha tenuto in piedi il Paese in questo anno di tragedie e crisi. C’è l’idea che sia importante fare solo prodotti di nicchia, di qualità, che il Made in Italy che dà frutti sia solo quello famoso, quello dell’alta moda. Insomma, per dirla in una battuta, a Belluno si preferisce fare l’occhiale”.
Eccola, la schiettezza semplice e chiara tipica di quelle zone, nelle parole di Stefano Bona, il segretario generale della Fiom del territorio. Stefano sa di cosa parla. È un ex operaio nato e cresciuto tra le tute blu del profondo Nordest, e ti racconta la verità su una storia che altrove, dove la “politica industriale” non è solo una chiacchiera fumosa da promesse elettorali, non rischierebbero mai di far finire.
Eppure, questa storia di sudore e rumore e concretezza è lunga decenni e affonda il suo “c’era una volta” nel senso di colpa dello Stato, che volle risarcire questa gente per l’assurda tragedia del Vajont, finanziando la costruzione dello stabilimento di Mel. Questa storia è ancora viva grazie agli operai, a quegli angeli della nebbia in corteo in un dicembre bellunese di qualche anno fa, quando tutto sembrava irrimediabilmente perduto.
Non fanno completi sartoriali da duemila euro, né lenti e montature per i marchi blasonati. Fanno motorini per frigoriferi. Prodotti in cui devi essere bravo, avere mani esperte, rapidità, precisione, cultura della materia. Perché il valore commerciale sarà anche basso, circa 30 euro al pezzo, ma senza questo cuore pulsante non ci sarebbe il freddo che mantiene i nostri cibi.
“Acc è l’erede di Zanussi Elettromeccanica, che negli Anni Sessanta edificò lo stabilimento nell’ambito della ricostruzione dei territori devastati dalla tragedia del Vajont e lo portò alla leadership dei mercati mondiali negli Anni Novanta – spiega il sindacato in un documento –. Ceduta dal Gruppo Electrolux nel 2003 a fondi di private equity, Acc ha conosciuto declino, crisi e dissesto che hanno portato, a seguito di una prima procedura di amministrazione straordinaria, alla sua acquisizione nel dicembre 2014 da parte del Gruppo cinese Wanbao Compressors (controllato dalla municipalità di Guangzhou). Il Gruppo Wanbao alla fine del 2019 ha annunciato l’intenzione di dismettere le attività italiane, chiudendo lo storico sito di Mel. Grazie alla mediazione del ministero dello Sviluppo Economico e della Regione Veneto, si è addivenuti, dopo la dichiarazione dello stato di insolvenza nel marzo scorso, alla procedura di amministrazione straordinaria a maggio, affidata a un manager molto noto nel settore dell’elettrodomestico, Maurizio Castro. Il commissario straordinario ha avviato, in vista della cessione schedulata a seguito di una selezione internazionale per la fine del 2021, il programma di risanamento, fondato su nuovi prodotti a velocità variabile, su volumi crescenti e sul back shoring, in sintesi il rientro a casa delle produzioni delocalizzate in Cina, che è stato accolto molto favorevolmente dai grandi clienti europei preoccupati dal duopolio Jiaxipera-Nidec e dunque interessati a un produttore europeo indipendente e di grande tradizione tecnica e industriale. Il piano industriale è in corso di esecuzione con pieno successo, tanto che i primi due mesi del 2021 fanno segnare il record di ordinativi da oltre dieci anni”.
Un paradosso. Un’azienda che ha commesse record e sta chiedendo da tempo un incontro al governo per salvarsi. “In fabbrica c’è tantissimo lavoro – ci conferma Stefano Bona –, i volumi sono aumentati del 36 per cento. Ma la situazione è drammatica, vengono chiesti pagamenti anticipati ai clienti e in cassa ci sono solo i soldi per i salari”.
Per questo il tempo stringe e il progetto Italcomp appare come l’unica salvezza possibile. Questo progetto prevedrebbe la costituzione di un polo integrato del compressore italiano che unisca le tradizionali competenze industriali dell’ex Zanussi e dell’ex Embraco, azienda di Riva di Chieri, provincia di Torino, dismessa dal Gruppo Whirlpool nel 2018 e poi coinvolta nel fallimento e nella bancarotta fraudolenta di una società, la Ventures s.p.a., che si era impegnata ad acquisirla e riavviarla. Nascerebbe da questa fusione un’unica società, la Italcomp, chiamata a produrre 6 milioni di compressori per frigoriferi domestici e commerciali a Mel e 8 milioni di motori per compressori e per lavatrici, nonché una quota ulteriore di motori per applicazioni extra-eldom, a Riva. Un progetto salutato dall’unanime consenso delle categorie economiche e delle forze politiche e sociali, che lo hanno giudicato un forte esempio di nuova politica industriale.
“I benefici per la Valbelluna sarebbero molto rilevanti – spiega il sindacato –: il Progetto ItalComp prevede infatti investimenti nel sito veneto per circa 40 milioni di euro e il raddoppio dell’attuale occupazione. Attualmente, l’80% delle forniture ad Acc sono italiane, con la forte presenza di indotto regionale. I benefici per l’area metropolitana di Torino (qualificata dal 2019 area di crisi complessa) sarebbero non meno rilevanti: gli investimenti previsti sono di 16 milioni, in grado di generare un riassorbimento significativo dei 400 lavoratori dismessi da Embraco e di riattivare un sito capace di intercettare in prospettiva il trend generale verso la motorizzazione elettrica”.
Eccolo, il futuro a portata di mano, in fondo alla nebbia del mattino. Un futuro in mano al governo. Se il governo dicesse sì, “si creerebbe un clima di fiducia e si muoverebbero le banche. Il nodo è tutto politico – è la sintesi di Stefano Bona –. Draghi non vuole salvare le cosiddette aziende zombie, ma qui c’è un vero piano industriale, solido, una prospettiva che darebbe vita al più grande polo della produzione europea di settore. Electrolux ha volumi altissimi ma gli mancano le forniture dall’Asia”.
Ancora appesi a un filo, insomma. Tra Torino e Belluno. 700 lavoratori aspettano, pronti, da sempre, alla lotta.