Per le lavoratrici e i lavoratori delle società cooperative esiste un “salario minimo” ed è quello previsto dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative nella categoria. Lo ha stabilito il tribunale di Bologna, con una sentenza di grande importanza, destinata a pesare in futuro sulla retribuzione di lavoratrici e lavoratori della cooperazione e non solo. 

Contratto al ribasso

La vicenda è quella di una lavoratrice del turismo, cameriera ai piani in un albergo bolognese, alla quale il datore di lavoro, una società cooperativa appunto, applica un contratto (Unicoop-Ugl) diverso e peggiore rispetto a quello sottoscritto da Cgil, Cisl e Uil (Ccnl Turismo). Questa scelta nella busta paga della lavoratrice (e delle sue colleghe naturalmente) si traduce in una forte compressione del salario: la retribuzione oraria è di 6,705 euro lordi, contro gli 8,24 euro del contratto Turismo. 

Controllando la busta paga

La lavoratrice decide allora di rivolgersi al suo sindacato, la Filcams Cgil, per controllare questa busta paga così “leggera” ed è qui che il nodo arriva al pettine. Matteo Fabbri è il sindacalista della Filcams Cgil Bologna che assiste la lavoratrice: “Purtroppo in questo settore, ma non solo in questo, di buste paga 'sbagliate' ne vediamo tantissime. Il problema è che difficilmente si arriva come in questo caso fino in fondo. Pesano la precarietà dei contratti, la condizione stessa di fragilità delle lavoratrici, che molto spesso sono anche migranti, con il terrore dunque di poter perdere anche il permesso di soggiorno”.

Ma in questo caso invece la storia è differente: Fabbri si accorge subito che la paga base non è corretta e apre – come si dice in gergo sindacale – una vertenza, sia nei confronti dell'albergo (soggetto appaltante) che della società cooperativa, appaltatrice del servizio di pulizia. Società che nel frattempo perde anche l'appalto, lasciando la lavoratrice a casa e in forte difficoltà economica. I solleciti di pagamento continuano, ma senza risposta da parte datoriale. Ed è così che si arriva alle vie legali. 

La vertenza in tribunale

Qui entrano in gioco l'avvocato Bruno Laudi e l'avvocata Clelia Alleri, legali di riferimento della Cgil bolognese, che presentano un decreto ingiuntivo alla coop, chiedendo le differenze retributive maturate nel periodo di lavoro, oltre 2000 euro per circa 6 mesi. Il Tribunale di Bologna intima il pagamento alla società, che però questa volta non resta in silenzio e presenta anzi ricorso contro il decreto. La vicenda arriva così davanti a un giudice ordinario che emette le sentenza. 

Retribuzione "proporzionata"

“Il principio che viene riaffermato dal giudice – spiega l'avvocata e oggi sindacalista della Fp Cgil di Reggio Emilia, Clelia Alleri – è quello sancito dall'articolo 36 della nostra Costituzione: il lavoratore ha diritto a una retribuzione 'proporzionata'. E il giudice ha ribadito che, come previsto esplicitamente dal decreto legge 248/2007 e confermato dalla Corte Costituzionale (sentenza 59/2013), questa proporzionalità va ricercata nei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Per cui, in automatico, quel contratto diventa il riferimento per la retribuzione delle lavoratrici e dei lavoratori”. 

L'onere della prova

Ma un aspetto particolarmente significativo della sentenza, secondo l'avvocata Alleri, sta nell'attribuzione dell'onere probatorio alla parte datoriale: “Per la prima volta – spiega ancora la legale – il giudice ha stabilito che spetta al datore di lavoro dimostrare che il contratto che vuole applicare è quello comparativamente più rappresentativo. Un fatto importante, perché spesso per lavoratori e sindacato l'onere probatorio risulta molto gravoso, in assenza di una legge sulla rappresentanza che definisca chiaramente i criteri di valutazione”. 

L'argine della rappresentatività

Insomma, la sentenza di Bologna può rappresentare uno strumento importante per la tutela di lavoratrici e lavoratori, in particolare di un settore delicato e fragile come è il mondo degli appalti, e ancor più nel turismo, dove l'applicazione di contratti che abbassano ulteriormente salari già poveri è all'ordine del giorno. “Il giudice è stato molto chiaro nello stabilire che per andare a incidere su diritti fondamentali, come quello a una giusta retribuzione, occorre che chi firma i contratti abbia una forte rappresentatività tra i lavoratori", commenta l'avvocato Bruno Laudi: "Quindi questa sentenza rappresenta un argine a questo fenomeno molto diffuso e deleterio, soprattutto negli appalti privati".

Conclude Laudi: "Ma anche nel pubblico, con il Codice degli appalti, il legislatore ha introdotto una norma che ha una ratio simile, riconoscendo anche qui una sorta di 'salario minimo', perché l'appaltatore deve applicare ai propri dipendenti un trattamento economico non inferiore a quello previsto dai Ccnl sottoscritti dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Pertanto, vale la pena dare seguito a questi principi, per poter riaffermare la validità di una contrattazione nazionale che sia rispettosa di quanto sancito dall'articolo 36 della nostra Costituzione”.