“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Andrebbe aggiornata quella prima, bellissima frase che apre la nostra amata Costituzione di cui quest’anno ricorrono i 75 anni. Basterebbe aggiungere un aggettivo che spesso sfugge a chi ci governa. Semplice, diretto, sostanziale. Una parola: dignitoso. Solo così quell’incipit folgorante voluto dai nostri padri costituenti troverebbe forma e sostanza in un Paese affamato di sana e giusta occupazione.

Perché non può reputarsi davvero democratica una Repubblica fondata su un lavoro che non ti permette di vivere. O peggio ti uccide. Ti schiavizza. Ti precarizza l’esistenza. Ti condiziona il futuro e ti paralizza il presente. Ti priva dei diritti fondamentali. Ti rende meno libero e dunque più ricattabile.

E poi c’è l’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Perché la civiltà di uno Stato degno di questo nome si misura soprattutto dalla capacità di non lasciare indietro nessuno. Di concedere a tutti la possibilità di realizzarsi, di inseguire i propri sogni e di soddisfare i propri bisogni.

Ma è tutta carta straccia, parole al vento, utopia: un roboante “me ne frego” governativo ci condanna alla realtà. Proprio oggi, proprio il Primo Maggio, impacchettato sotto forma di decreto. Un delitto perfetto per una classe lavoratrice già assassinata da decenni di deregolamentazione sfrenata. Patria dello sfruttamento quotidiano, della flessibilità selvaggia, del precariato a vita, del voucher incontrollato, del subappalto strutturato, dell’infimo salario, del pagamento in nero, del turno insostenibile, del profitto a tutti i costi.

Dove i giovani sono vittime di stipendi mortificanti. Dove i poveri vengono criminalizzati e lasciati ai margini. Dove l'ascensore sociale è fuori servizio da decenni, guasto al piano -1. Dove il fisco premia i più furbi e l'onestà è guardata con sospetto. Dove uscire di casa la mattina e non fare ritorno la sera è un rischio da mettere in conto. Dove chi può fugge e non ritorna. Dove mettere al mondo un figlio equivale a un salto nel vuoto. Dove programmare un futuro significa sfidare un destino già segnato.

Ce lo ricorda la nostra storia recente e ce lo conferma l'attuale panorama socio-economico, fatto di numeri senza appello. Nei primi tre mesi dell’anno le retribuzioni medie italiane sono cresciute del 2,2%, dato in assoluto più basso d’Europa, mentre l'inflazione è schizzata al 7,6. Il caro-vita ha eroso il potere d'acquisto di 5,4 punti. Oltre 7 milioni di lavoratori attendono da tempo il rinnovo dei contratti. Nel Mezzogiorno è occupata meno di una donna su tre. Quasi 3 milioni di ragazzi sotto i 34 anni non studiano né lavorano. Più di 5 milioni e mezzo di persone sopravvivono in povertà assoluta.

Con una cartella clinica così fosca bisognerebbe agire d’urgenza. Un bravo medico dovrebbe fare di tutto per salvare il paziente agonizzante. E non accompagnarlo a miglior vita come ha deciso di fare questo esecutivo che convoca i sindacati la sera prima per leggergli il bollettino e proporre una cura che accelera il decesso. Pressapochismo, incompetenza, cinismo, provocazione, arroganza: scegliete voi il termine più consono.

Scaldano invece il cuore le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che sabato in visita al distretto meccatronico di Reggio Emilia ha sottolineato come sia il lavoro a metterci “di fronte alle sfide nuove, alle necessità e a bisogni emergenti, per chiederci come rilanciare il Paese in Europa e nel mondo”. Il lavoro è lo strumento che in passato "ha permesso e favorito la mobilità sociale”. Il lavoro “è ciò che mette ogni cittadino nella condizione di scegliere il proprio posto nella vita della comunità”, ha aggiunto il capo dello Stato. Meglio se dignitoso, mi permetto di aggiungere io.

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