I dati della Fondazione Di Vittorio su dimissioni e licenziamenti mettono in evidenza tutte le contraddizioni del nostro mercato del lavoro. C’è una fase di leggera ripresa, troppo leggera perché si possa immaginare un’inversione di tendenza significativa sull’occupazione. Ma quando si indaga un po’ più a fondo sulla qualità dei rapporti di lavoro, ancora una volta il quadro si fa più negativo.

Si racconta del grande problema di reperimento della manodopera, specie su alcune mansioni tecniche e in alcuni settori. Poi, però, scopriamo che anche nel nostro Paese aumentano i licenziamenti e anche le dimissioni. Che sia ripresa una certa mobilità dopo gli anni della pandemia era fisiologico immaginarlo, ma alcuni dei dati evidenziati meriteranno certamente analisi più approfondite.

Tre le questioni che balzano agli occhi. La prima è l’elevato numero non solo di contratti a termine (dato che ormai commentiamo quasi tutti con preoccupazione), ma soprattutto il fatto che sono per lo più contratti di breve o brevissima durata. Segno di una domanda di lavoro che quando cresce è spesso povera e discontinua. Segno anche di una difficoltà di programmazione e d'investimento a medio termine di una parte del sistema produttivo.

La seconda: l’aumento delle dimissioni può avere ragioni molto diverse ed esiti molto differenti se propedeutico o meno a un nuovo rapporto di lavoro, ma indubbiamente segnala la ricerca di condizioni migliori, sia dal punto di vista economico e retributivo sia da quello del benessere aziendale complessivo. Le prime analisi evidenziano che una parte di queste dimissioni può anche derivare da un’importanza e un peso diversi che, specie dopo la pandemia, viene dato al lavoro, per il quale non si è più disponibili a sacrificare tutto.

Infine il dato dei licenziamenti, che potrebbe derivare da una fase di ristrutturazione, riorganizzazione e crisi di parte del sistema produttivo che non trova soluzioni o percorsi alternativi ai licenziamenti, disperdendo così professionalità e competenze che poi devono riattivarsi autonomamente nel mercato. Una situazione in grande evoluzione, che merita anche qualche approfondimento settoriale, anagrafico e per genere, che però ha il tratto comune della grande fragilità del nostro mercato del lavoro.

Un mercato del lavoro che avrebbe bisogno di maggiori protezioni, di limitare le tipologie più precarie e il lavoro a termine, di essere sostenuto da investimenti che consentano di agire dal lato della domanda e non solo dal lato dell’offerta, di salari più adeguati e di valorizzazione delle competenze e delle professionalità. Al momento, le scelte che il governo pare orientato a fare, a quello che si apprende dai giornali, vanno nella direzione ostinatamente opposta a quella che servirebbe. E questa non è una bella notizia per i lavoratori e le lavoratrici.