Si apre domani (martedì 7 gennaio) a Bergamo il VII Congresso della categoria della Cgil che rappresenta e tutela i lavoratori e le lavoratrici della comunicazione, da Poste a Tim, dallo spettacolo alla Rai, per finire all'industria editoriale. Settori in transizione, cruciali per traghettare nel futuro il Paese. Con Fabrizio Solari, segretario generale Slc, tracciamo un bilancio dei quattro anni appena alle spalle e gli impegni per i prossimi.

Quattro anni intensi tra Covid e rincari delle materie prime. E anche tra modifiche profonde, pensiamo ad esempio alle telecomunicazioni. Partiamo proprio dal bilancio di questi quattro anni.

La notizia positiva è che siamo ancora vivi. Sono stati effettivamente quattro anni molto complicati. Abbiamo dovuto inventare soluzioni, penso alla fase della pandemia, che fino al giorno prima erano impensabili. Il risultato è che in Italia le telecomunicazioni hanno assicurato, soprattutto nel periodo dei lockdown, la possibilità di lavorare in smart working, di comunicare, di avere una parvenza di vita non totalmente relegata. Oggi siamo in piena transizione. È evidente che, secondo l'assetto che avrà il gruppo Tim, si produrrà un cambiamento nell'intero settore. Per noi una prateria da indagare, dai contratti di lavoro alle professionalità necessarie, alle aggregazioni aziendali: tutto è destinato a cambiare e noi dovremo essere pronti alla sfida.

Anche in altri settori Slc ha giocato in ruoli da protagonista: nel settore dello spettacolo e dello sport, ad esempio, o in quello dell’industria culturale.

L'esplosione dei costi energetici ci ha fatto ripiombare drammaticamente in una situazione che credevamo di avere alle spalle. I gruppi industriali avevano fatto negli anni scorsi profonde ristrutturazioni, si erano dati nuovi assetti. Ma l’aumento dell’energia in alcuni casi ha prodotto la sospensione della produzione. Il nostro ruolo è stato centrale nella gestione dell’emergenza. Per il futuro vorrei che questi anni di pandemia e costi impazziti innescassero una profonda riforma del settore. Così come è già successo per quello dello spettacolo. Quando scoppiò la pandemia, il governo si accorse che, volendo dare anche a questo comparto un aiuto, non sapeva chi fossero i lavoratori e le lavoratrici cui destinarlo.

Il settore dello spettacolo ha anche visto l'approvazione di una riforma...

I settori dello sport e dello spettacolo sono sempre stati considerati come non centrali, neppure la figura giuridica dei lavoratori era chiara. Allora abbiamo intrapreso un percorso molto complicato, che grazie alla capacità di costruire alleanze ha portato alla proposta di legge di riforma del settore. Quella approvata non è esattamente ciò che volevamo, però è un ottimo risultato. E contiene, tra le altre, una cosa rivoluzionaria: il reddito di continuità garantito a tutti i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, riconosciuto proprio in virtù della natura discontinua della loro professione. È una novità importante. Ora siamo impegnati nel rinnovo dei contratti. Temo che nei prossimi mesi e anni dovremo difendere queste conquiste. Perché siano effettive occorre siano finanziate.

Cambiare il presente e costruire il futuro è lo slogan del congresso. Quale è il senso di questa doppia sfida?

Cambiare il presente perché occorre fare il possibile per migliorare una condizione che è inaccettabile, viste la precarietà diffusa e i bassi salari. E poi scontiamo anche, in alcuni nostri settori, un'insufficiente politica industriale, su cui occorre intervenire subito. Siamo anche coscienti che nei prossimi anni accelereranno ancora i processi di cambiamento profondi nel modo di produrre, di commerciare, di vivere, nel modo di fruire dei servizi pubblici. Dobbiamo contribuire a definire i confini di questi nuovi paradigmi. In altri termini, per il futuro, non abbiamo solo una funzione di regolazione, che è quella che siamo chiamati a fare tutti i giorni, ma anche una di programmazione. Dobbiamo provare a immaginare il futuro, a porre le nostre condizioni senza farci sorprendere.

Questo futuro che hai provato a delineare pone anche un'altra doppia sfida: da un lato quella democratica, dall'altro lato quella dell'innovazione. E in realtà sono forse due facce di una stessa unica sfida.

Alcuni esempi, partiamo dall’attualità. L'idea che la capillarità degli uffici postali dovesse essere sfruttata non solo per vendere prodotti finanziari ma anche per garantire ai cittadini l’accesso ai servizi della pubblica amministrazione è un'idea che noi abbiamo avanzato alcuni anni fa. Il progetto Polis, finanziato dal Pnrr e appena presentato da Poste Italiane, va in questa direzione. Lo sportello non si sostituisce alla pubblica amministrazione, ma consente di utilizzarne i servizi anche nei piccoli comuni a rischio spopolamento, dove altrimenti l’esigibilità dei diritti di cittadinanza sarebbe assai limitata. Detto questo, per garantire efficacia ed efficienza del progetto occorre una rete veloce e stabile. E allora la questione dell’infrastruttura generale, di chi la costruisce e di chi e come la gestisce, diventa, ed è, una questione democratica. Oggi avere un collegamento in fibra veloce è un diritto di cittadinanza.

Ma i lavoratori e le lavoratrici, dentro queste sfide, che ruolo hanno?

Il loro ruolo spetta a noi realizzarlo, fornendogli gli strumenti per costruire il futuro. Innanzitutto, devono avere il diritto alla formazione continua: in un mondo che cambia così velocemente c'è bisogno di sapere. È il bene primario che dobbiamo garantire a tutti e a tutte. Ovviamente insieme a stabilità, salari dignitosi e carriere. E poi dobbiamo ripensare e contrattare nuovamente l'organizzazione del lavoro e orari rispettosi degli orari di vita. La pandemia ha dimostrato, ad esempio, che con lo smart working non c'è stato alcun crollo della produttività.

Se questo è il quadro ed è questa la sfida per il futuro, che sindacato serve?

Un sindacato aperto al nuovo, in grado d'immaginare la possibilità di andare oltre le colonne d'Ercole del conosciuto. So che può spaventare e che bisogna anche fare il quotidiano, affrontando le storture che abbiamo oggi.  Ma io sono convinto che non siamo in una situazione di crisi, bensì in una situazione di transizione. E allora nel mentre ci si occupa dell'oggi, occorre provare a progettare il domani. Faccio un esempio: da sempre, venendo da un'organizzazione della produzione fordista, abbiamo definito il salario stabilendo il prezzo orario del lavoro. Ora la decisione di collegare il prezzo al tempo non è obbligatoria. Si può anche ragionare di una contrattazione che misura la prestazione non in tempo, ma in qualità. Non è all’ordine del giorno ora, ma in prospettiva ci si potrebbe ragionare. Tenendo conto che in realtà lo smart working, quello vero, anticipa questo concetto. Altro esempio: continuiamo giustamente a dire che il welfare va difeso, anzi rafforzato. Bene, ma anche il welfare, per come lo conosciamo, ha un suo sistema di finanziamento che è legato all'economia fordista, cioè ogni testa definisce il contributo dell'azienda e del lavoratore al sistema. Ma se nel frattempo ci sono aziende che con il 10% dei dipendenti di una multinazionale fanno fino a 400 volte il fatturato di una multinazionale industriale - sto parlando di Amazon, Google e altre - se noi non cambiamo il modo con cui viene finanziato il welfare, continueremo a spremere le aziende più in difficoltà e a lasciare praterie di guadagno inusitati al nuovo che avanza. Occorre saper declinare innovazione in continuità. Infine, credo che questa sfida sia talmente impegnativa, che riguardi anche la forma della rappresentanza sindacale. Credo sia necessario definire le regole d'ingaggio, come si misura la rappresentanza di ognuno, e poi una grandissima attenzione a costruire accordi unitari, perché soprattutto in una situazione come quella italiana, difendere la particolarità della confederalità credo comporti anche un di più per ognuno di noi, per cercare non di sopraffare, ma di trovare un'intesa che possa aumentare la capacità d'interlocuzione e la possibilità, quindi, di vincere qualcuna di questa sfide.