Aiuta a gestire gli impegni familiari, ma allo stesso tempo complica i confini tra vita lavorativa e vita privata. Rende più liberi nell’organizzazione delle attività e non aumenta lo stress. Il lavoro da remoto, che sarebbe meglio definire “da casa”, sperimentato in modo massiccio in lockdown e poi per tutto il periodo di pandemia, piace ai lavoratori: il 54,7 per cento lo promuove, il 36 per cento non si sbilancia, e solo il 9,3 per cento lo valuta in modo negativo. È il giudizio che emerge dall’indagine realizzata dall’Inapp, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, tra marzo e luglio 2021 su un campione di oltre 45mila individui tra i 18 e i 74, un censimento su vasta scala che fotografa come è stato organizzato, declinato e vissuto il lavoro agile in fase emergenziale in Italia.

“È un tema di grande interesse e di straordinaria attualità, anche perché di recente è stato prorogato il regime semplificato per il ricorso al lavoro agile – spiega Nicola Marongiu, coordinatore area contrattazione della Cgil nazionale –. Lo dimostra l’impulso ricevuto negli ultimi tempi: i circa 18 contratti collettivi firmati che lo hanno normato, ma soprattutto i più di 300 accordi di secondo livello, cioè quelli fatti nelle aziende, che nella prima fase hanno riguardato un lavoro in condizioni emergenziali. In questo secondo periodo guardano invece a una prospettiva più ampia per quanto attiene i riflessi e le relazioni con l’organizzazione del lavoro. L’azione contrattuale è stata anche favorita dal protocollo sottoscritto a dicembre scorso da parti sociali e ministro del Lavoro”.

Partiamo dai numeri dello studio Inapp. Prima della crisi sanitaria il lavoro da remoto (in telelavoro o in modalità agile) era un fenomeno di nicchia: coinvolgeva quasi due milioni e mezzo di occupati, pari all’11 per cento. Nel 2020, nella fase più acuta del Covid, questa cifra è schizzata a quasi 9 milioni (39,8 per cento), per assestarsi nel 2021 sui 7,2 milioni (il 32,5 per cento). Di questi, il 61 per cento ha lavorato a distanza tre o più giorni a settimana.

Un’esperienza e anche un esperimento collettivo, si potrebbe dire, nati dalla necessità di rispondere a un’emergenza contingente e non dalla promozione di nuovi modelli organizzativi, applicati in modo informale e senza alcun accordo. E che nonostante l’improvvisazione delle soluzioni adottate, sono talmente piaciuti che quasi il 46 per cento vorrebbe continuare a svolgere la propria attività in modo agile, con un 24 per cento che preferirebbe farlo almeno 3 giorni a settimana. Un’occasione per ripensare i luoghi di vita e di lavoro, con implicazioni importanti sul futuro delle città e dei territori. “Si osserva un’accentuata propensione al cambiamento – scrivono i ricercatori nell’indagine -, ma determinante in tal senso è la stabilità del lavoro agile nelle organizzazioni, che se garantita, farebbe spostare un terzo degli occupati in un piccolo centro e 4 su 10 in un luogo isolato a contatto con la natura”.

La propensione al lavoro da remoto post-pandemia è diffusa un po’ in tutte le aziende, a prescindere dalla tipologia e dal genere, a parte le lavoratrici impiegate nella pubblica amministrazione che vorrebbero per lo più tornare in modo stabile in ufficio: questo perché le modalità che hanno caratterizzato alcuni comparti del settore non sono state sempre “agili”.

Poi ci sono le valutazioni di merito: la maggior parte di quanti lo hanno vissuto ritiene che il lavoro da remoto generi isolamento (quasi il 64 per cento degli intervistati) e aumenti i costi delle utenze domestiche (il 50,3 per cento). D’altro canto non dà la sensazione di sentirsi costantemente sotto controllo (il 54 per cento), non riduce la motivazione sul lavoro (46 per cento) ma non aiuta nei rapporti con i colleghi (59,8 per cento).

“Il rischio di segregazione o isolamento è stato massimizzato durante la pandemia - commenta Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil -, ma dovrebbe essere mitigato in condizione di normalità, grazie all’alternanza. Un altro pericolo che vediamo è quello della dilatazione dei tempi di lavoro, in senso estensivo e intensivo, cioè produrre di più a parità di orario e lavorare di più. Tutti questi potenziali aspetti negativi possono essere affrontati e risolti grazie alla contrattazione collettiva”. La sfida è proprio questa: contrattare lo smart working e renderlo strutturale, in un processo accompagnato e condiviso nelle relazioni aziendali e tra i diversi livelli gerarchici all’interno dell’azienda che scommette così sulla cooperazione e su una diversa impostazione e organizzazione del lavoro.

Infatti, quando è frutto di una trattativa individuale, finisce per essere una sorta di concessione che l’azienda fa ai lavoratori, di solito donne con esigenze di conciliazione. “E invece la regolazione quando ha riguardato tutti i dipendenti e non il singolo, si è rivelata un successo – prosegue Scacchetti -. Oggi moltissimi contratti collettivi regolano lo smart affermando i principi generali, dal diritto alla disconnessione alla costituzione di un osservatorio, e richiamano a una disciplina dettagliata nella contrattazione di secondo livello”.

Soprattutto nei settori digitalmente innovativi, assicurazioni, banche, le telecomunicazioni, le grandi imprese, che sono state più pronte a trasformare un’esperienza pandemica, che non è stata smart, in ragionamento di strutturalità di questa forma di lavoro. Le resistenze ci sono, certo, lì dove non si è pronti a innovare e si pensa che occorre il controllo pervasivo e continuo del lavoratore. “C’è un ulteriore sfida per noi – conclude la segretaria Cgil -: coinvolgere i lavoratori nella vita e nella dinamica sindacale. Cioè dobbiamo evitare che l’isolamento produca un allontanamento dalla pratica e dalla partecipazione. Inoltre, lo smart working deve diventare uno strumento per liberare la creatività e l’intelligenza dei lavoratori e non un modo per stressarli ulteriormente”.