Gli ultimi dati sul lavoro hanno riproposto il tema della crisi dell’occupazione femminile. Un tema non nuovo sul quale l’emergenza pandemica ha prodotto un effetto fortemente peggiorativo. Così mentre nel Paese si parla di ripresa economica, l’Istat ci informa che dei 271mila occupati in più dell’anno, oltre due terzi sono uomini. Nonostante le parole, gli annunci e le misure inserite nel Pnrr, l’occupazione femminile quindi non riparte. Dato che va letto ricordando quello del dicembre scorso anno quando fece scandalo la notizia che su 101 mila posti di lavoro persi, ben 99mila riguardavano donne.

Quindi le donne hanno pagato di più la crisi e oggi non beneficiano della pur debole ripresa occupazionale. Debole perché precaria e spesso a tempo parziale. Qualche giorno fa è stato l’Inapp (l’ex Isfol), a sottolineare come nei primi sei mesi del 2021, il 35% delle nuove assunzioni di lavoro sia stato part-time, spesso involontario, e soprattutto per le donne per il 49,6% delle quali i nuovi contratti sono stati a tempo parziale contro il 26,6% degli uomini. E il 42% dei nuovi contratti di donne associa al regime orario a tempo parziale anche una forma contrattuale a termine o discontinua, debolezza che riguarda solo il 22% della nuova occupazione maschile.

Il gap uomo/donna nel lavoro si allarga. Di dato in dato potremmo andare avanti citando quelli sulle dimissioni volontarie, sull’inattività, sul pay gap ma servirebbe solo ad aggiungere conferme a un quadro già chiaro. Ciò che non è chiaro è lo stupore generalizzato per il pessimo andamento dell’occupazione femminile. Questo disastro non è infatti una novità per il nostro Paese che registra da anni per l’occupazione femminile uno scollamento di circa 13 punti dalla media europea. La pandemia, come un po’ in tutti i settori, non ha fatto altro che funzionare da polarizzatore estremizzando le dinamiche in atto.

D’altro canto, lo stesso Pnrr, strumento principe per far ripartire il Paese, non punta sull’occupazione femminile per promuovere la quale si affida a politiche e strumenti per lo più già impiegati e che hanno prodotto i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. E soprattutto non vi destina risorse adeguate. Contrastare l’emarginazione femminile nel lavoro non può essere un mero esercizio di parità, una concessione a una minoranza lamentosa ma è un investimento per il Paese in termini di Pil, di benessere e giustizia sociale. Obiettivi generali e non particolari, come conferma l’analisi del Rapporto Censis 2021.

Per invertire la rotta, serve una rivoluzione all’approccio strategico che riconosca pari dignità tra infrastrutture materiali e immateriali e infrastrutture sociali; e un investimento massiccio per promuovere quella cultura della parità oggi ancora marginale soprattutto nel mondo del lavoro. Dato un problema, se la soluzione individuata non risulta efficace, ne va cercata una nuova. Altrimenti stupirsi della débâcle dell’occupazione femminile è mero esercizio di retorica.

Esmeralda Rizzi è componente del Dipartimento Politiche di genere della Cgil nazionale