Cosa resterà della Fiat in Italia? Mentre i riflettori sono puntati sui vertici, i manager e le loro retribuzioni stellari, - sembra di essere nel ‘700 con i festeggiamenti per il matrimonio tra casate europee -  quello che rimane per il futuro e per la biografia da scrivere del nostro Paese e dell’Europa sono le persone che davanti a un computer o a una linea di montaggio hanno assicurato la continuità di Fiat prima e Fca poi, nonostante anni di scarsi investimenti, di salari magri e di cassa integrazione: i metalmeccanici sono quello che resterà della Fiat.

Con la globalizzazione poi può accadere che addirittura Iveco, oggi in Cnhi, possa essere un asset prelibato per una azienda cinese, ma del resto ormai in Italia l’interesse nazionale strategico è ridotto all’inno nazionale cantato prima di una disputa calcistica. Basti pensare che nel silenzio più assoluto la Marelli è stata venduta ad un fondo americano, Kkr, e oggi è in mano giapponese dopo la fusione con Calsonic Kansei.

I globalisti e i sovranisti hanno bisogno gli uni degli altri e si potranno continuare ad azzuffare come galline in un pollaio televisivo mentre le persone che lavorano sono state lasciate sole. E’ chiaro ora che gli interessi di un Paese non sono coincidenti con l’interesse della proprietà di un’impresa? È chiaro che il bene comune e pubblico possono realizzarlo l’intelligenza e capacità di saper fare di chi progetta, crea dal nulla opere in scala industriale di beni e servizi? Ma questo lavoro non è riconosciuto dalla politica, dalla società prima che dall’impresa.

La realtà è che se c’è una Marelli da vendere o uno spin off della Iveco dalla Cnhi o se c’è un accordo sulla fusione tra Fca e Psa, lo si deve al valore che genera ogni giorno chi lavora senza nemmeno il giusto investimento del sistema Paese. Se ci sarà un futuro industriale innovativo per il nostro Paese e per l’Europa lo si deve a loro e sarebbe ora di riconoscerlo. 

Il sindacato prima che imprese e governo deve uscire dalle trincee scavate e andare allo scoperto, discutere con i lavoratori: indicare le difficoltà, organizzare una intelligenza collettiva e una pratica contrattuale che non potrà più essere nelle beghe di cortile nazionale. La democrazia e la partecipazione dei lavoratori non è un seggio in consiglio d’amministrazione ma un percorso di cambiamento profondo del processo e del prodotto in relazione alla domanda pubblica più che di mercato. Perché il mercato si è dovuto adeguare alla domanda pubblica di transizione ecologica della mobilità. Quindi quando si parla di democrazia economica bisogna aprire un confronto nel sindacato europeo con la partecipazione dei lavoratori perché altrimenti la tensione tra globalizzazione e nazionalismo produce “guerre” in cui a perdere sono sempre gli stessi.

C’è lavoro per tutti dopo le fusioni? Si, se c’è una politica contrattuale comune che impedisce la messa in competizione degli stabilimenti. Perché mentre i sindacati hanno la carta d’identità, le multinazionali guardano efficienza e redditività, sostegni pubblici all’investimento. Pertanto con le fusioni, scorpori multinazionali c’è un vincolo che il sindacato deve darsi: garantire l’occupazione attraverso una redistribuzione del lavoro e una riduzione dell’orario visto il salto tecnologico della digitalizzazione. La salvaguardia dei contratti nazionali ma anche una contrattazione di gruppo armonica in Europa per impedire dumping di diritti e salari. 

La Fiat e poi Fca è sempre stata anticipatrice di tendenze, averne consapevolezza sarebbe già una grande salto, questo salto ci sarà se lo faranno insieme i lavoratori che restano il futuro della Fiat ma più in generale della storia del nostro Paese.

Michele De Palma è segretario nazionale Fiom Cgil