“Lavorare stanca” è il titolo prescelto per il volume che raccoglie le conclusioni di un’ampia ricerca sulle condizioni dei lavoratori di Fiat-Chrysler e di Cnh realizzata dalla Fiom-Cgil, quando ancora la discussione in Italia sulla produzione automobilistica raccoglieva l’attenzione che invece non è stata più in grado di suscitare nel corso di un anno, il 2020, segnato dall’irruzione del Covid-19 nelle nostre società. Anzi, a dire il vero, leggere i materiali prodotti dalla ricerca suscita una strana impressione in chi ha sempre prestato un’attenzione assidua al mondo della fabbrica e del lavoro perché è come se i risultati dell’opera di indagine che è stata curata da Francesco Garibaldo parlassero già di una situazione diversa – e profondamente diversa – da quella attuale. Una situazione che ci riporta al clima di interesse per le vicende di Fiat e poi di Fca che fu intenso nel momento in cui Sergio Marchionne, soprattutto negli anni fra il 2009 e il 2015, tenne nelle sue mani il timone del gruppo, cercando di proiettarlo sempre più in una dimensione internazionale grazie alla fusione con Chrysler.

Furono anni in cui i riflettori erano accesi sul gruppo che aveva ancora nel Lingotto di Torino la propria sede di riferimento e che pareva in grado di indicare una direzione al processo di trasformazione dell’industria e del mondo del lavoro allora in corso. Un periodo di profonda lacerazione sindacale, con le rappresentanze del mondo del lavoro divise e contrapposte in due tronconi, l’uno favorevole alla stipula del nuovo contratto aziendale, che sostituiva in toto il precedente contratto di categoria dei metalmeccanici, e il secondo, rappresentato dalla Fiom di Maurizio Landini, nella parte di oppositore frontale di quel disegno di riassetto integrale delle relazioni industriali.

Il libro che oggi pubblica i risultati della ricerca Fiom echeggia ancora quel clima e la radicalità di uno scontro che ha segnato una stagione. Una stagione che si è conclusa, in un certo senso, senza che ne uscisse un soggetto vincitore. Non lo sono stati, nonostante tutto, Sergio Marchionne e il gruppo che egli tentò di rifondare: oggi Marchionne, a oltre due anni dalla scomparsa nell’estate del 2018, rappresenta il passato di un gruppo automobilistico che sta per fondersi con un altro; Psa, per dare vita a un nuovo soggetto d’impresa, Stellantis, di cui a pochi mesi dalla nascita, si stenta ancora a mettere a fuoco il profilo. Fca sta per chiudere la sua breve storia all’interno di una compagine che non verrà disegnata prevalentemente al suo interno, ma che risponde in primo luogo a sollecitazioni che provengono da Parigi, sede di Psa.

Questo rapido mutare delle condizioni rende difficile percepire e situare nella giusta prospettiva i risultati di una ricerca condotta quando la sorte di Fca ancora non si era profilata. E quando soprattutto non erano ancora state formulate le domande sul futuro della produzione automobilistica che esistono invece oggi, quando ormai, dopo la radicalizzazione dello scenario economico imposto dal Covid-19, domina l’impressione di essere entrati in uno scenario nuovo e inedito, in cui si giocherà un riassetto complessivo del sistema dell’auto. Nel caso dell’Italia, poi, tali interrogativi appaiono ancora più accentuati, in quanto ci si chiede quale sarà lo spazio delle strutture produttive del nostro paese all’interno di Stellantis e quali saranno le prospettive per un’attività industriale su cui in Italia prevale un senso di incertezza.

La ricerca voluta dalla Fiom sulle condizioni di lavoro è nata in una fase che oggi appare chiusa, quella immediatamente successiva all’intesa con Chrysler nella primavera del 2009, siglata ancora sotto l’influenza della crisi globale dell’anno precedente. Una crisi globale che l’Italia non ha mai superato del tutto e che oggi congiunge i suoi effetti con quelli della pandemia, ponendo il sistema economico e produttivo alle corde e sfidando la sua capacità di resistenza.

L’accordo americano raggiunto da Marchionne nel 2009 aprì per la Fiat una stagione all’insegna della ricerca di una prospettiva di rilancio che non si è compiuta fino in fondo. Il disegno originale di Marchionne, in quell’anno, era di costituire un gruppo dell’auto a tre punte, come allora si diceva, che allineasse tre marchi e non solo due, come poi effettivamente avvenne. I marchi cui pensava Marchionne erano Fiat, Chrysler e Opel, con un perimetro aziendale di un nuovo gruppo in grado di produrre poco meno di 6 milioni di automobili all’anno. Quello era il progetto iniziale dell’operazione perseguita da Marchionne, che non si realizzò perché la sua intenzione si scontrò con l’ostinata resistenza, non tanto di General Motors, ancora sotto l’effetto di una crisi devastante, quanto di Angela Merkel e della Germania, che consideravano Opel come un pezzo del sistema industriale tedesco e non intendevano perciò cederla ad altri (tanto meno agli italiani e alla Fiat). Soltanto il logoramento ulteriore dei conti Opel ha infine permesso a Carlo Tavares di acquisirla la consociata tedesca di Gm e di avviarne il risanamento nell’ambito di Psa.

La costituzione di Fiat-Chrysler avvenne perciò con questo limite pesante, che ne condizionò il raggio d’azione. Marchionne si ritrovò tra le mani un gruppo più piccolo di quello che aveva pensato di formare e dovette fare i conti con una realtà diversa da quella su cui aveva puntato. La riorganizzazione della capacità produttiva che si verificò dovette interiorizzare questo limite. E tuttavia il tentativo avviato con la ristrutturazione degli impianti e la loro uniformazione a una nuova metrica del lavoro, indice di un riassetto del processo produttivo, fu l’ultimo tentativo di un’iniziativa italiana sui temi dell’organizzazione di fabbrica su vasta scala. In effetti, una spinta in questo senso c’era già stata poco prima, quando si era deciso un intervento su Pomigliano d’Arco, da sempre uno dei punti deboli del sistema Fiat. Ma le dimensioni dell’operazione cambiarono dopo l’inizio dell’avventura americana, anche perché c’era la necessità di modernizzare gli impianti di Chrysler, più arretrati di quelli italiani.

Di qui nacque la controversia sulla regolazione sindacale sull’organizzazione del lavoro che portò alla lacerazione del 2010 e degli anni seguenti, con la spaccatura del sindacato e l’attivazione del nuovo contratto aziendale. Certamente il clima che ne derivò portò a un inasprimento tale delle posizioni da ampliare la distanza fra le posizioni aziendali e l’azione di contrasto svolta dalla Fiom. Le relazioni industriali uscirono radicalizzate da quello scontro, al punto da determinare un blocco delle posizioni, testimoniato dal fatto che il conflitto tra la direzione aziendale e la Fiom prese la via giudiziaria, col depotenziamento dell’attività contrattuale.

Tanti fattori giocarono nel senso della radicalizzazione dello scontro, che tuttavia si è sopita negli ultimi anni perché, alla fine, come si è detto, una vittoria definitiva non c’è stata. Fca sta per concludere la sua storia dando vita a un altro gruppo dell’automobile; la Fiom, pur senza rientrare nel contratto aziendale (che si è sempre rifiutata di sottoscrivere), ha contribuito alla ripresa di una curvatura più fisiologica all’attività sindacale all’interno del gruppo. In parallelo, le questioni relative all’organizzazione del lavoro in fabbrica e al loro disciplinamento sono rimaste in sospeso, mentre la caduta produttiva in Italia si è venuta sempre più accentuando. Così, più che del modo di organizzare la produzione, si è finito per discutere della cassa integrazione, il ricorso alla quale ha fatto diventare sussultoria la vita di alcuni stabilimenti come quelli torinesi.

E ora? Ora probabilmente le polemiche sindacali di quest’ultimo decennio saranno relegate ai margini dalla nascita di Stellantis, soprattutto se il nuovo gruppo riconoscerà uno spazio tutto sommato marginale alle produzioni italiane. La fase testimoniata dai temi della ricerca Fiom rischia dunque di essere consegnata al passato, se non si imprimerà un po’ di slancio alle attività che si compiono nelle fabbriche italiane e se Stellantis non darà un rilievo maggiore ai prodotti italiani. L’impressione, scorrendo la ricerca della Fiom sulle condizioni di lavoro, è che essa possa in un certo senso chiudere la storia del confronto sull’organizzazione del lavoro di fabbrica che si è sviluppata all’interno dell’industria italiana seguendo impulsi e linee specifiche. Nel futuro questo filone d’iniziativa, per quanto controverso e contrastato, rischia nel nostro paese l’inaridimento.