Sono stati gli ultimi a scioperare, sono i primi a manifestare. In mezzo il buco nero del lockdown. I metalmeccanici hanno dovuto lottare per bloccare le produzioni non essenziali quando andare al lavoro era troppo rischioso e in troppi continuavano a imporlo. Oggi devono scendere in piazza per difendere posti di lavoro già precari prima del Covid e che dopo l’epidemia rischiano di scomparire per sempre.

Tra il “prima” e il “dopo”, in questi mesi che hanno stravolto l’esistenza di tutti e che tutto hanno messo in discussione, non c’è stato giorno in cui non sia stata pronunciata la fatidica frase “niente potrà essere come prima”. La tutela pubblica della salute, da rimettere in primo piano; i diritti sociali uguali per tutti, su cui ricostruire le basi della cittadinanza; i limiti ambientali, su cui ridefinire il concetto stesso di sviluppo, oltre che il suo modello; il ruolo dello stato in economia, da far prevalere sull’interesse privato; il primato del lavoro su quello del profitto e della rendita. Passata la notte e tornata un po’ di luce, ora arriva il banco di prova per capire se quel discorrere diventerà qualcosa di concreto o verrà dimenticato come si fa con i brutti pensieri notturni.

Il primo segnale sarà la scadenza del 17 agosto, quando, al momento, scadrà il blocco dei licenziamenti. Se non verrà prolungato sapremo che il governo avrà rinunciato al primato dell’interesse pubblico su quello privato. Ma confidando che ciò non sia vero, il momento delle scelte vere arriverà subito dopo, quando si tratterà di preparare il futuro. Di decidere come uscire dalla crisi e quale Paese vogliamo essere. O, almeno, provare a essere.

I metalmeccanici oggi manifestano su questo, sul destino di tutti, non solo sul loro o sulle loro crisi. Sembra troppo per una semplice categoria di lavoratori, per quanto la più numerosa dell’industria. Eppure da sempre il loro destino è di dover farsi carico di qualcosa che va oltre loro. Più per condizione che per vocazione, facendo di necessità virtù. Un po’ perché fanno tante cose - dall’acciaio all’informatica - o si intrecciano con tanti servizi essenziali - dalle manutenzioni ospedaliere a quelle dell’energia. Un po’ - tanto - perché su di loro, qui da noi, si è spesso misurato il livello delle relazioni sociali, a partire dal ruolo del contratto nazionale, che è uno dei punti per cui sono oggi in piazza. Le due cose messe assieme parlano all’intero paese e alle scelte che sta per fare, al come utilizzare i soldi per la “ricostruzione” e quale indirizzo darle, se usare la crisi per cambiare rotta o rassegnarsi a un declino lenito da qualche ammortizzatore; per chi ne potrà godere e finché ce ne saranno.

Oggi, qualche centinaio di persone, “distanziate” e senza nemmeno il conforto di potersi stringere e abbracciare, ripartono da dove si erano fermate lo scorso marzo, dai problemi affrontati pubblicamente e insieme; allora per la salute, oggi per il lavoro. Sono solo una delegazione, lanciano un segnale di speranza, pensano che nessuno possa salvarsi da solo. Sono una risorsa, sicuramente più feconda del prestito miliardario incassato ieri da Fca. Possono essere l’antidoto a un autunno di rancori e miserie. Andrebbero ascoltati.