Riprendere la produzione definendo una "road map" che permetta "una riapertura ordinata e in piena sicurezza del cuore del sistema economico del Paese". Il motivo? "Prolungare il lockdown significa continuare a non produrre, perdere clienti e relazioni internazionali, non fatturare con l'effetto che molte imprese finiranno per non essere in grado di pagare gli stipendi del prossimo mese". Questi alcuni passaggi del testo diffuso dalle imprese del Nord, ovvero Confindustria di Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto. Una richiesta di riaprire le attività, proprio nelle regioni più colpite del Covid-19, perché in caso contrario "il Paese rischia di spegnere definitivamente il proprio motore". Le associazioni confindustriali locali hanno ricordato che le quattro regioni rappresentano circa il 45% del Pil italiano.

Ma cosa c'è dietro la presa di posizione, espressa con questi toni? In primo luogo si tratta con tutta evidenza di un attacco alla linea del governo, con il premier Conte - insieme ai ministri - che sta consultando gli esperti scientifici per definire la cosiddetta "Fase 2". Dalle indiscrezioni ormai emerse appare chiaro che la riapertura sarà molto graduale: le date sul tavolo sono dopo Pasquetta per le aperture di piccole attività produttive, il 4 maggio per la rimodulazione delle misure che riguardano spostamenti e uscite, quindi una progressiva ripartenza del Paese. Il calendario non piace alle imprese del Nord, che sposano invece la linea leghista che chiede la riapertura a breve termine.

In realtà, però, il lockdown che lamentano le aziende non è esattamente tale. Oltre 70.000 imprese in tutta Italia hanno chiesto una deroga ai prefetti, sostenendo con un'autocertificazione che la loro attività è essenziale e non può fermarsi, dopo il decreto del 25 marzo. E in effetti tante realtà hanno continuato a produrre, con le persone che non hanno mai smesso di recarsi nei luoghi di lavoro (soprattutto metalmeccanici, ma non solo): è il Paese delle deroghe, come abbiamo sottolineato in una nostra inchiesta sulla realtà ancora attive. Nelle domande, tra l'altro, sono in testa proprio le regioni del Nord: in Lombardia oltre 15.000 richieste, con Brescia al primo posto, in Veneto circa 14.000. Alla faccia della chiusura totale. Da parte loro Cgil, Cisl e Uil hanno invitato più volte gli imprenditori a "non fare furbi", soprattutto nella situazione attuale, offrendosi di assistere i prefetti nel vaglio dei fascicoli, per stabilire dove la produzione è essenziale davvero.

Sulla richieste di Confindustria è intervenuta il segretario generale della Fiom, Francesca Re David. "Le pressioni degli industriali sono cieche - ha detto - più dura l'epidemia, più a lungo l'economia non si riprenderà. Deve essere la comunità scientifica a dire quando sarà il momento di riaprire". D'altronde le regioni settentrionali sono quelle più colpite, e "il disastro sanitario sta impattando anche perché non sono state fatte chiusure delle imprese nell'immediato, Bergamo ne è la dimostrazione". Guai quindi ad aprire prima del tempo: "Nel Nord la mobilità è fortemente determinata dalle fabbriche - riflette Re David -, pensare di rimetterle in moto contemporaneamente, senza le misure necessarie per garantire salute e sicurezza, significa solo mettere davanti il profitto". Fabbriche che dovranno essere ridisegnate per convivere con il virus, attraverso distanziamenti, sanificazioni e riduzioni dell'orario. A questo può servire l'accordo appena firmato in Fca, dove azienda e sindacati hanno concordato le linee guida per evitare il contagio da Covid-19 alla ripresa dell'attività produttiva. Un atto, da parte dell'ex Fiat, che è in controtendenza rispetto alla condotta unilaterale di Confindustria e lascia intravedere idee diverse anche dentro il mondo delle aziende.

Dietro alla tentata forzatura di Confindustria c'è poi un'altra ragione, che scorre in filigrana. Il vertice di viale dell'Astronomia sta per cambiare: il nuovo presidente verrà designato con voto online il 16 aprile, per il dopo Boccia il favorito è il numero uno di Assolombarda Carlo Bonomi. Nel frattempo, però, in questi giorni di crisi il sindacato ha riconquistato un ruolo negoziale, ha un posto al tavolo del governo, tratta con il premier Conte (rigorosamente in video call) anche a lungo, fino ad arrivare alla firma degli accordi. Le imprese sono abituate ad anni di governi che non considerano il sindacato: il ritorno delle intese a Palazzo Chigi, e dunque un ruolo forte di Cgil, Cisl e Uil nella gestione del lavoro, è la vera paura delle aziende durante e dopo il Coronavirus. Ecco perché alzare la voce in quel modo, con l'appello dei "nordisti", tutto sommato è un segnale di debolezza.