C’è chi si è fermato. Chi ha scioperato già, chi lo sta facendo ora. Aziende che hanno chiuso e sanificato, altre che lasciano che tutto passi persino il virus. L’Italia che lavora ha paura ma è anche arrabbiata. Oggi più di una settimana fa.  

Il marito di Stefania è stato male, lo hanno lasciato a casa per sospetto Coronavirus, nessun tampone ma nella sua fabbrica in diciassette si sono ammalati. Sono trascorse tre settimane. Lui sta meglio ma non ancora benissimo. Gli dicono di rientrare. Adesso, proprio adesso, che il picco – forse – si avvicina. Stefania è preoccupata. Chiede aiuto.  

È trascorso un mese esatto da quando la malattia ha colpito investendo subito una fabbrica, la Unilever di Casalpusterlengo. Silenziosamente, allora, i colleghi del paziente 1 si sono sottoposti a tamponi e quarantena. Poi la mappa del contagio si è estesa. Prima ci si chiedeva come prevenire il pericolo, oggi – che i morti sono quasi 5.500 – ci si domanda come salvare la pelle. Le richieste, le accuse, le denunce dei lavoratori corrono sulla rete e investono il sindacato. “Pensate, oggi a Codogno le aziende metalmeccaniche non essenziali sono aperte a pieno regime. Pazzesco”, scrive Mirko sulla pagina facebook della Cgil nazionale.

Paolo invece si domanda chi farà i controlli nelle fabbriche e cosa accadrà quando tutti saranno malati. Forse chissà, a emergenza finita, gli imprenditori diranno che non conviene più tenere aperto e preferiranno trasferire le produzioni all’estero. Il dubbio è lecito. Lo è soprattutto dopo che Confindustria ha inviato una lettera al governo “di sottobanco”. Sabato dopo un confronto tra parti sociali ed esecutivo, dopo la conferenza stampa del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, tutto sembrava deciso: le produzioni non essenziali avrebbero chiuso. Domenica lo stravolgimento arrivato in seguito a quella lettera scritta per tutelare gli interessi economici degli imprenditori. C’è chi usa la carta intestata e chi dal basso affida alla pancia dei social la sua rabbia e il suo dolore. 

Ad Amazon si lavora senza mascherina, senza rispettare le distanze di almeno un metro”; “Loro fanno i padroni, antepongono il profitto privato alla salute pubblica. Noi facciamo i lavoratori, alziamo la testa! Basta morire come bestie”. La rabbia oggi è diretta soprattutto ai “signori industriali”, per loro “le persone valgono meno di zero. Il dio soldo è il loro idolo a cui tutto è concesso”. Ai sindacati le persone chiedono di fare di più, come accade sempre quando il mondo del lavoro è sotto attacco ma con un nemico tanto invisibile quanto subdolo. 

Quando il 14 marzo parti sociali e governo avevano sottoscritto il protocollo in rete prevalevano le domande: c’era chi voleva sapere delle mascherine, dei dispositivi di protezione individuali, delle procedure da mettere in atto, di come rispondere se l’azienda non garantiva la sicurezza, della cassa integrazione da attivare. A quel bisogno di risposte Maurizio Landini aveva deciso di dare voce in diretta. Quasi 2 mila tra richieste e commenti arrivati in meno di un’ora. Poi si è tornati alle fabbriche, agli ospedali, ai supermercati, negli uffici e alle poste. Poi si è tornati a morire. “Chi la garantisce la sicurezza in un paese dove ci sono tre morti al giorno sul lavoro anche senza virus?”.

La richiesta è stata prima sotterranea, poi sempre più forte, fino a sollevarsi nonostante il rischio di perdere soldi in un momento difficile: sciopero generale. Fermiamo tutto. È un grido di paura? È un grido di rabbia? Forse entrambe le cose. Ma è anche un richiamo alla responsabilità collettiva. Gli operai magari non scrivono su carta intestata, lo fanno sugli striscioni, sui volantini nelle bacheche delle fabbriche e adesso anche sui social. Hanno accettato il protocollo. Sono andati responsabilmente a lavorare anche quando le aziende, irresponsabilmente, non hanno fornito loro mascherine o strumenti di protezione. Ma adesso sono stanchi. 

Dopo l’ultimo annuncio di Conte avevano tirato il fiato. Donne e uomini per un attimo sollevati. Si rincorrevano altre domande: cosa accadrà lunedì? Chi di noi non andrà al lavoro? Chi di noi sarà considerato essenziale? Ogni ora di ritardo del decreto è stata scandita dal sospetto che, in fondo, loro – sempre licenziabili, delocalizzabili, spesso invisibili – sono diventati tutti improvvisamente essenziali.

Quando ieri Maurizio Landini, Annamaria Furlan e Carmelo Barbagallo hanno dichiarato di essere pronti alla mobilitazione, fino allo sciopero, hanno dato semplicemente voce a lavoratori e lavoratrici che per settimane hanno atteso e permesso al Paese di andare avanti nonostante tutto e che oggi ripetono in tutti i modi e con tutti i mezzi: “Non mandateci a morire.”

Il sindacato oggi è investito di un carico pesante di responsabilità e rappresentanza. Lo sono tutti. Lo è Confindustria. Lo è soprattutto il governo. La scelta è ancora una volta tra rappresentare gli interessi di pochi o quelli di molti. La prova dei fatti sarà domani quando “solo” gli essenziali andranno a lavorare