PHOTO
Nel vertice a L’Aja del giugno scorso gli Stati della Nato, Italia compresa, hanno stabilito che ciascuno dovrà destinare alla difesa una quota pari al 5 per cento del proprio Pil entro il 2035. A quanto ammonta questo 5 per cento per il nostro Paese? Quanti euro dovremo investire? Se la quota fosse rimasta al 2 per cento, come è adesso, nei prossimi dieci anni avremmo speso 567 miliardi di euro. Ma se dobbiamo arrivare al 5 per cento, i miliardi da spendere saranno 963 complessivi nell’arco del decennio 2025-2035. Esattamente 395 miliardi di euro in più.
Calcoli e Pil
Come si è arrivati a questa cifra? Il documento programmatico di finanza pubblica 2025, pubblicato il 2 ottobre, prevede una crescita del Pil nominale pari al 2,7 per cento nel 2026, 2,5 nel 2027 e 2,6 nel 2028. Nello stesso Documento si stima che la spesa militare aumenterà dal 2 per cento del Pil nel 2025 al 2,15 nel 2026, al 2,30 nel 2027 e al 2,5 nel 2028. Tale incremento comporterebbe, nel triennio considerato, un onere aggiuntivo complessivo di circa 23 miliardi di euro rispetto a uno scenario in cui la quota destinata alla difesa restasse stabile al 2 per cento del Pil.
Assumendo, inoltre, che il Pil nominale continui a crescere al ritmo del 2,6 per cento annuo registrato nel 2028 e che l’incremento della spesa militare proceda in modo lineare fino al raggiungimento del 5 del Pil nel 2035, si ottiene una stima, appunto, di circa 395 miliardi di euro di spesa aggiuntiva rispetto allo scenario in cui l’incidenza della difesa rimanesse al 2 per cento.
La Spagna ha detto no
La traiettoria della spesa sarà riesaminata nel 2029, sulla base del contesto strategico e degli obiettivi di capacità aggiornati che vengono aggiornati ogni quattro anni e definiscono, per ciascun Paese, il contributo atteso in termini di risorse, mezzi e infrastrutture da mettere a disposizione dell’Alleanza. Su questo punto si è concentrata l’opposizione del premier spagnolo Pedro Sánchez, secondo cui la Spagna può raggiungere i propri obiettivi di capacità spendendo il 2,1% per cento del Pil, senza compromettere il proprio modello sociale.
5%=1,5%+3,5%
Tornando alla quota del 5 per cento, questa è suddivisa in due categorie. Il 3,5 per cento è di spese militari tradizionali, secondo la definizione Nato: attività di addestramento, acquisto e manutenzione di armamenti e mezzi, munizioni, logistica, missioni internazionali.
Il restante 1,5 riguarda spese militari più ampie legate alla sicurezza, come la protezione delle infrastrutture critiche, la mobilità militare, e la cyber sicurezza. Nel computo rientreranno infine anche gli aiuti diretti all’Ucraina e alla sua industria militare.
Spese militari in crescita
La scelta di fissare al 3,5 per cento del Pil la quota destinata alle spese militari tradizionali mira ad allineare gli impegni degli alleati a quelli degli Stati Uniti, la cui spesa per la difesa negli ultimi dieci anni si è attestata mediamente proprio intorno a questa soglia.
Ma già oggi la spesa militare degli altri membri Nato non è trascurabile ed è cresciuta significativamente negli ultimi anni, con un’accelerazione in prossimità dell’inizio della guerra in Ucraina.
Le spese militari dei Paesi della Nato, esclusi gli Usa, sono aumentate del 9,3 per cento nel 2023, del 18,6 nel 2024 e del 15,9 nel 2025. Va inoltre ricordato che già nel 2014 gli Stati membri si erano impegnati a raggiungere la quota del 2 per cento del Pil in spese militari, quota che, secondo le stime Nato, dovrebbe essere raggiunta da tutti i Paesi nel 2025.
Come finanziare le spese militari
Come verranno finanziate le spese militari aggiuntive? Il documento programmatico di finanza pubblica prevede che la manovra sia coperta per il 40 per cento con nuove entrate e per il restante 60 attraverso “interventi sulla spesa”, vale a dire tagli in altri settori. Un’ulteriore possibilità sarebbe l’aumento del debito pubblico, ma questa opzione appare difficilmente praticabile: il debito, stimato al 136,2 per cento del Pil nel 2025, è previsto in crescita fino al 2027, per poi iniziare a ridursi a partire dal 2028.
Per di più, il nostro Paese è tuttora soggetto alla procedura per disavanzo eccessivo della Commissione europea, dalla quale dovrebbe uscire quest’anno, il che consentirebbe di attivare la clausola di salvaguardia europea, che permette di superare temporaneamente il limite del 3 per cento nel rapporto deficit/Pil fino a un massimo dell’1,5 del Pil, se l’aumento della spesa è causato dalle spese militari.
Più austerità
Il Documento conferma per i prossimi anni un deficit inferiore al 3 per cento già nel 2025, in discesa fino al 2,1 nel 2028: un orientamento che introduce un livello di austerità persino più marcato rispetto a quanto richiesto dalle regole europee. In questo quadro, se il debito non può aumentare e il deficit è destinato a ridursi, mentre la spesa militare deve crescere, resta un’unica strada: operare tagli in altri comparti della spesa pubblica.
Ne deriva che la manovra è dominata da due vincoli: la necessità di mantenere il deficit sotto il 3 per cento e l’obbligo di aumentare la spesa militare. In pratica, l’Italia potrà ricorrere alla clausola di salvaguardia soltanto per finanziare la difesa, mentre per il resto sarà costretta a una politica restrittiva.
Più tagli
A titolo di confronto, il documento programmatico di finanza pubblica prevede tra il 2024 e il 2028 una riduzione della spesa per il pubblico impiego dal 9 all’8,7 per cento del Pil, una spesa per le pensioni stabile al 15,3 per cento del Pil e un incremento minimo della spesa sanitaria dal 6,3 al 6,4. Sul fronte dell’istruzione, i dati Ue più recenti indicano che l’Italia spende in questo settore il 3,9 per cento del Pil, contro una media europea del 4,7.
Ciò significa che, mantenendo la spesa militare al 2 per cento anziché elevarla al 5, il 3 per cento di Pil “liberato” potrebbe essere destinato, per esempio, ad aumentare di un terzo la spesa per il pubblico impiego, del 20 per cento la spesa pensionistica, del 48 per cento la spesa sanitaria o addirittura del 77 per cento la spesa per l’istruzione.
Florencia Sember, coordinamento attività scientifica e analisi economica Cgil Reggio Emilia


























