Per prima cosa bisogna immaginare di non poter votare, di non poter lavorare legalmente, di non poter aprire un conto in banca o iscrivere un figlio a scuola. Poi bisogna immaginare che il proprio nome non compaia in nessun registro anagrafico, che non si abbia uno Stato, che non si sia cittadini. In questa condizione non si è rifugiati. Non si è migranti. Semplicemente, non si esiste. Si è apolidi.

È il caso di Nedzad Husovic, 33 anni, Ned o Pio per gli amici. È nato a Centocelle, grande quartiere popolare romano, è di origine rom, ed è considerato bosniaco dallo Stato italiano anche se non ha mai messo piede in Bosnia. Ned è presidente dell’associazione New Romalen (nuova generazione di rom) ed educatore, dopo una procedura durata anni, solo lo scorso anno è riuscito a ottenere lo status di apolide, da cui poter far partire la conta di cinque anni per richiedere la cittadinanza italiana, sempre rispettando gli altri requisiti necessari del reddito e della residenza.

Chi è un apolide?

Nel mondo, l’apolidia è una condizione che riguarda almeno 10 milioni di persone. In Italia, le stime parlano di 3.000 a 15.000 individui. Ma i numeri reali potrebbero essere ben più alti. Invisibili per lo Stato, invisibili per le statistiche. E spesso, invisibili anche per l’opinione pubblica.Il termine “apolide” viene dal greco a-polis, ovvero “senza città”. Ma nella realtà contemporanea significa ben di più: essere privi di nazionalità, quindi anche di diritti fondamentali.
Un apolide è una persona che nessuno Stato riconosce come cittadino. È una non-persona nel senso giuridico. Alcuni sono anche rifugiati. Ma la maggior parte non ha mai attraversato una frontiera. È semplicemente nata fuori dal sistema.

Come si diventa apolidi?

L’apolidia non è una scelta. È l’effetto di ingranaggi burocratici inceppati, di discriminazioni sistemiche, di guerre e dissoluzioni statali. Si può diventare apolidi alla nascita, se si è figli di apolidi o se nessuno dei due genitori può trasmettere la cittadinanza; ma anche per discriminazione etnica, religiosa o di genere, in paesi dove la cittadinanza viene negata a certe minoranze. Lo si diventa anche a causa di guerre o del collasso di uno Stato, come nel caso dell’ex Jugoslavia o dell’Urss; e per lacune legislative, quando le leggi sulla cittadinanza sono incomplete, contraddittorie o in conflitto tra loro.

Dove vivono gli apolidi?

La risposta è semplice: ovunque. Ma in particolare, secondo l’Unhcr, i paesi con la maggiore presenza di apolidi sono: Costa d’Avorio, Repubblica Dominicana, Iraq, Kuwait, Myanmar, Russia, Siria, Thailandia, Zimbabwe. In molte di queste nazioni, le leggi impediscono alle donne di trasmettere la cittadinanza ai figli. In altre, il problema è legato alla dissoluzione di vecchi regimi o a vere e proprie politiche di esclusione etnica.

In Italia

Anche nel nostro Paese l’apolidia è una realtà. Sebbene ufficialmente solo poche centinaia di persone abbiano ottenuto il riconoscimento dello status, le stime parlano di migliaia di casi sommersi. Molti apolidi in Italia appartengono all'etnia Rom, storicamente esclusa dai sistemi di registrazione anagrafica. Altri sono ex cittadini jugoslavi mai riconosciuti dai nuovi Stati post-bellici. Senza un documento, restano ai margini: senza casa, senza lavoro, senza voce.

Uno status che cambia la vita

Il riconoscimento formale dello status di apolide – previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1954 – può rappresentare un punto di svolta. Perché permette di ottenere un permesso di soggiorno, garantisce l’accesso a scuola e sanità, consente l’iscrizione all’università e il lavoro regolare, riconosce il diritto a un documento di viaggio.

Una convenzione per l’invisibilità

Il primo passo per proteggere gli apolidi fu compiuto nel 1954, con la Convenzione di New York. L’Italia l’ha ratificata nel 1962. Solo nel 2015, però, il Parlamento ha approvato anche l’adesione alla Convenzione del 1961 sulla riduzione dell’apolidia. Un passo importante, ma non certo sufficiente.

Si può eliminare l’apolidia?

Sì. L’Unhcr lo ha messo nero su bianco con il piano #IBelong lanciato nel 2014, aveva un obiettivo ambizioso: porre fine all’apolidia entro il 2024. Non ci sono riusciti. Le dieci azioni concrete, però, continuano a tracciare una rotta. Innanzitutto bisognerebbe risolvere i casi esistenti, garantire che nessun bambino nasca apolide, eliminare la discriminazione di genere nelle leggi sulla cittadinanza. Poi: prevenire la perdita di nazionalità per motivi discriminatori, gestire i passaggi tra Stati per evitare apolidia e offrire percorsi di naturalizzazione ai migranti apolidi.