PHOTO
La Giornata mondiale della libertà di stampa è stata istituita dall’Onu per ricordare la Dichiarazione di Windhoek (Namibia) del 3 maggio 1991; un documento in cui si afferma che la difesa della libertà di stampa, del pluralismo e dell’indipendenza dei media sono elementi fondamentali per la difesa della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Principi che, nel mondo occidentale, sembravano scontati ed acquisiti.
Ad oltre trent’anni di distanza dall’istituzione della Giornata mondiale, invece, ci ritroviamo a dover ribadire con forza la necessità di difendere quanto sancito dall’Onu e scritto a chiare lettere nella nostra Costituzione repubblicana, nei documenti fondamentali dell’Unione Europea e di altri paesi avanzati.
Negli Stati Uniti, per citare un esempio, abbiamo assistito alla cacciata dei giornalisti dell’Associated Press dalle conferenze stampa della Casa Bianca, il luogo più rilevante al mondo per i media. È stato necessario chiedere l’intervento di un giudice per ottenerne la riammissione. Le due terribili guerre di Ucraina e Gaza, che si sommano ai tanti conflitti dimenticati come quelli del Sudan e del centro Africa, hanno causato il più alto numero di vittime fra giornalisti e fotoreporter. A questo va aggiunto l’inaccettabile blocco dell’accesso da parte della stampa internazionale su Gaza, che impedisce un racconto completo dei massacri e delle tragedie che si stanno consumando, soprattutto ai danni di donne e bambini.
Per non parlare degli ingiustificati e inaccettabili attacchi contro quei giornalisti e quei programmi di approfondimento che provano a raccontare la tragedia di Gaza, la cui portata non può essere ridotta ad una tabellina con il numero quotidiano di morti. Al contrario di quanto accade in Ucraina dove, seppur con le pesanti limitazioni di una situazione di guerra, riusciamo a sapere le storie e i racconti della sofferenza del conflitto, su Gaza è calato un velo di silenzio nonostante gli appelli dell’Onu.
Non va meglio a casa nostra. Possiamo dire che abbiamo alle spalle un “annus horribilis”. Querele temerarie e azioni giudiziarie intimidatorie contro i giornalisti si sono susseguite da parte di esponenti del mondo politico, imprenditoriale e istituzionale; mentre l’unica prospettiva di riforma del reato di diffamazione è quella che prevede il pesante aumento delle sanzioni pecuniarie, in aggiunta a un’altra serie di norme penalizzanti per i giornalisti come quella che imporrebbe di svolgere il processo nel luogo dove è stata sporta la querela.
È stata data un’ulteriore stretta alle fonti giudiziarie con il provvedimento che vieta la pubblicazione, anche solo di stralci, delle ordinanze di custodia cautelare. Nel frattempo, si susseguono gli attacchi contro il giornalismo di inchiesta e i tentativi di scoprire le fonti giornalistiche, con buona pace del segreto professionale.
Abbiamo appena appreso che Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, non era il solo giornalista ad essere stato oggetto di intercettazioni con il sofisticato spyware militare fornito dalla società Paragon; insieme a numerosi attivisti dei diritti umani. Con lui un altro collega, sempre di Fanpage ha subito lo stesso trattamento. Un’attività esplicitamente vietata sia dalle norme europee che dalla legge italiana. Ma quanti sono i giornalisti spiati in Italia? Chi lo ha deciso in spregio a tutte le leggi e ai principi della democrazia e perché? Troviamo inspiegabile l’apposizione del segreto di Stato sulla vicenda e chiediamo risposte a fronte di una vicenda gravissima e inaccettabile.
Tutto questo costituisce un peso sempre più grave sulla libertà di stampa e l’indipendenza del lavoro giornalistico. Limitazioni che si intrecciano con una crescente situazione di precarietà e incertezza lavorativa di tante colleghe e colleghi, fattori che incidono moltissimo sull’autonomia dei giornalisti.
Stiamo attraversando una fase delicata per la nostra democrazia, dobbiamo esserne ben consapevoli e non avere incertezze o timidezze nel difendere il ruolo costituzionale che svolge l’informazione professionale. Un bene comune che non è un privilegio di una corporazione, ma rappresenta il diritto dei cittadini ad una informazione libera, corretta e plurale. Un diritto da difendere insieme.
Carlo Bartoli, presidente nazionale dell’Ordine dei giornalisti