C’è un rumore che resta nella mente più dell’esplosione di un ordigno. È il silenzio che segue, il vuoto che tenta di farsi regola. L’attacco a Sigfrido Ranucci, nella notte di Pomezia, non è soltanto un episodio di cronaca nera, ma un colpo al cuore di un principio civile: la libertà di cercare, capire, raccontare.

Ogni volta che un giornalista finisce nel mirino, l’Italia rivela la sua parte più fragile. Non serve condividere ogni parola di Report per comprendere che un Paese incapace di proteggere chi indaga sui poteri è un Paese che si abitua alla paura. E quando la paura diventa abitudine, la democrazia perde ossigeno.

Da anni il giornalismo d’inchiesta vive in trincea. Tra querele temerarie, processi mediatici, minacce fisiche, precarietà strutturale e delegittimazione politica, il messaggio è chiaro: chi scava troppo disturba. Così l’informazione si piega, il dibattito pubblico si impoverisce, la verità diventa un rischio professionale.

Ma è proprio nella difficoltà che si misura la qualità di una democrazia. Le bombe non esplodono solo per distruggere, ma per intimidire. Eppure ogni tentativo di intimidazione genera, per reazione, un obbligo morale: quello di continuare a raccontare. Continuare a dire, scrivere, indagare. Perché la libertà, se smette di essere esercitata, evapora.

Oggi il nome è quello di Sigfrido Ranucci, ma dietro di lui c’è un intero mestiere che resiste: redazioni locali, freelance, cronisti di frontiera che ogni giorno sfidano isolamento e minacce per tenere accesa la luce. L’attentato di ieri notte parla anche di loro, di un tessuto professionale logorato ma ancora capace di opporsi al buio.

Ecco perché la solidarietà, in questi casi, non può limitarsi alla formula rituale. Va tradotta in impegno politico, in protezione concreta, in una presa di posizione chiara. Chi informa difende un diritto collettivo. Non è un eroe, ma un garante. E un Paese che lascia soli i suoi garanti è un Paese che si prepara a vivere senza garanzie.

La libertà di stampa non si misura con le dichiarazioni di principio, ma con il coraggio di chi la pratica. Il coraggio di Ranucci, oggi, è il nostro specchio. Sta a noi decidere se riflettere quella luce o spegnerla dietro la comoda opacità dell’indifferenza.

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