Rischia di creare condizioni peggiori per i lavoratori, potrebbe innescare una spirale salari-prezzi, farebbe male alle imprese e al sistema economico. Il salario minimo, e cioè la retribuzione minima oraria che dovrebbe essere garantita per una determinata quantità di lavoro, tornato all’ordine del giorno in Parlamento con diversi disegni di legge, è criticato da più parti e osteggiato dalla maggioranza di governo. Ma gli economisti sono unanimi nel ritenerlo utile.

“Utile per i lavoratori e per l’economia – afferma Andrea Roventini, ordinario di economia politica alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa -. Ai primi perché aumenta le retribuzioni senza portare a una riduzione dell’occupazione, come si pensava una volta. Ricerche recenti hanno anche dimostrato che non favorirebbe neppure il mercato nero o informale, altra critica che gli viene rivolta”.

E in che modo, professore, il salario minimo avrebbe un impatto positivo sull’economia?
Un salario minimo più alto può portare miglioramenti alla produttività. Studi empirici recenti hanno constatato che dopo la sua introduzione in Germania e Brasile i lavoratori si sono spostati verso imprese più produttive. Diventerebbe quindi uno strumento di politica industriale che permetterebbe a un Paese come l’Italia, in cui la produttività non cresce, di rompere un “cattivo” equilibrio per il quale le aziende non innovano più o lo fanno poco e rimangono sul mercato semplicemente comprimendo i salari. Ecco, aumentarli le spingerebbe a ritornare a innovare e incrementare la loro produttività.

Ci sta dicendo che le imprese che cercano di schiacciare i salari verso il basso, dovrebbero invece trovare altri modi per essere concorrenziali?
Ci sono due meccanismi, statico e dinamico. Il primo è quello per cui le imprese hanno il potere di fissare i salari al di sotto dei livelli concorrenziali, quindi di comprimerli perché sono l’unico compratore del fattore lavoro di fronte a una vasta offerta. Perciò aumentarli non andrebbe a ridurre l’occupazione ma a diminuire questo potere che le aziende esercitano.

Poi c’è il meccanismo dinamico: in che cosa consiste?
Se un’azienda cerca di essere competitiva semplicemente grazie a salari bassi, nel breve periodo ottiene dei profitti a scapito dei lavoratori, ma smette di innovare. In questo modo nel lungo periodo subisce la concorrenza dall’estero, mentre il nostro Paese, intrappolato in un modello di sviluppo completamente sbagliato che si basa sulla compressione dei salari, non riesce a competere con le altre economie, per esempio quelle asiatiche. È un meccanismo che ci porta alla rovina. Lo dimostrano i dati: negli ultimi 30 anni il nostro Pil è cresciuto in maniera molto limitata.

A proposito di produttività, il nostro Paese beneficherebbe del salario minimo più di altri?
Non ne sono sicuro. Quello che è certo, invece, è che l'Italia non l’ha introdotto mentre altri lo hanno fatto. Noi abbiamo moltissime aziende poco produttive, protette dalla politica economica dei governi, si pensi alle cosiddette quote forfettarie. Con il salario minimo le si spingerebbero a innovare.

La mancanza del salario minimo è uno dei motivi per cui la nostra economia non va bene?
È così. Non avendo un salario minimo indicizzato, i lavoratori italiani sono quelli che maggiormente hanno perso potere di acquisto rispetto ai loro colleghi dei Paesi Ocse. Una recente ricerca dimostra che dove c’è il salario minimo indicizzato o aggiornato i lavoratori sono riusciti a proteggersi meglio dall’inflazione causata dalla guerra in Ucraina. E che questo non ha innescato una spirale prezzi-salari.

14 euro di tariffa oraria in Lussemburgo, 12 in Germania e Belgio, 11 in Irlanda, Francia e Olanda, 7,5 in Spagna e Slovenia. Secondo lei i 9 euro ipotizzati per l’Italia sono sufficienti?
Se si vuole fare un confronto, non va guardato solo il salario minimo ma anche il costo della vita dei Paesi. Secondo me fissarlo a 9 euro sarebbe un buon punto di partenza. A chi dice che è troppo alto rispondo che questo valore è congruo se si considera che la nostra economia ha avuto un tasso di inflazione al 10 per cento nell’ultimo anno. A chi invece sostiene che è troppo basso dico che l’importante è prevedere dei meccanismi di indicizzazione, come avviene in Francia e in Brasile.

Quindi il salario minimo è un argine al lavoro povero?
Sì, è una misura per contrastare il lavoro povero in un Paese che si trova in una situazione catastrofica. È però solo il primo tassello di una serie di riforme strutturali che andrebbero fatte per cambiare il mercato del lavoro: bisogna ridurne la flessibilità e irrigidirlo, a cominciare dal disincentivare i contratti a tempo determinato, che hanno portato vantaggi solo alle imprese, ma nessun beneficio ai lavoratori e neppure alla crescita economica. Un altro fondamentale tassello è una politica industriale che affronti l’emergenza climatica e decarbonizzi l’economia.

Qual è il ruolo del sindacato?
Sono felice che il sindacato e in particolare la Cgil abbia capito che il salario minimo non è una misura che va contro le organizzazioni di rappresentanza ma una riforma che darebbe più potere negoziale. Uno dei problemi dell’Italia e di tutte le economie occidentali è che a partire dagli anni Ottanta il potete dei sindacati è stato eroso. E quando i sindacati sono deboli le disuguaglianze crescono e si innescano circoli viziosi per l’economia. L’unico punto interrogativo che rimane senza risposta è come mai i sindacati italiani non abbiano ancora scioperato, non abbiano inaugurato una stagione di conflitto per aumentare i salari. Dove è accaduto, Francia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, i lavoratoti sono riusciti a ottenere successi e a proteggersi dall’inflazione. In Italia non sta succedendo. Mi auguro che questa svolta ci sia presto.

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